E DAGLI CON IL "BLIND TRUST" DALLA VISTA DI FALCO...

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
INES TABUSSO
00sabato 1 aprile 2006 23:25

CORRIERE DELLA SERA
1 aprile 2006
L’Unione: Cavaliere e tv né vendita né ineleggibilità
Il piano del centrosinistra: Authority sul modello Usa Berlusconi: non torno a Mediaset se lascio la politica

ROMA - Sul suo futuro, il presidente del Consiglio ieri è stato categorico: «Non tornerò alla mia azienda anche se dovessi lasciare la politica». Comunque l’Unione ha deciso di intervenire in profondità sul conflitto d’interessi. E ha scelto la «via americana». Sarà una nuova Authority sul modello statunitense, nominata dal Parlamento, a vigilare: con il potere di imporre interventi anche drastici. Ma senza prevedere l’ineleggibilità dell’imprenditore, anche nel caso in cui questi, come il premier Silvio Berlusconi, possedesse un impero mediatico. Né l’obbligo della vendita, come qualcuno a sinistra vorrebbe, che sarebbe comunque contemplata come soluzione limite.

UN GARANTE PER L’ETICA PUBBLICA - «L’Unione penserà a una legge sul conflitto d’interessi ma non sarà contro Berlusconi», ha detto ieri Romano Prodi. Mentre il leader della Margherita Francesco Rutelli ha aggiunto che il provvedimento attualmente in vigore, che chiama in causa l’Antitrust e l’autorità delle comunicazioni e che secondo Berlusconi «non può essere modificato in modo rilevante», sarà invece «cambiato nei primi mesi del nuovo governo». In che modo? Se il centrosinistra vincerà le elezioni, annuncia il senatore diessino Stefano Passigli, «riproporremo il disegno di legge presentato il 23 gennaio 2002, che aveva come primi firmatari Rutelli e il segretario dei Ds Piero Fassino, seguiti dagli altri rappresentanti dei partiti del centrosinistra». E che istituisce, appunto, «l’Autorità garante dell’etica pubblica e della prevenzione dei conflitti d’interessi». Un organismo di quattro persone, due nominate dalla Camera e due dal Senato, che dovrebbero eleggere a loro volta un quinto membro come presidente: il quale, in mancanza di accordo, verrebbe sorteggiato fra i giudici costituzionali.

LO SPAURACCHIO DELLA CESSIONE - L’Autorità avrebbe il compito di negoziare con i componenti di governo che fossero in situazione di incompatibilità (che la proposta del centrosinistra considera pressoché automatica per i settori dell’informazione, della tivù e della pubblicità) una via d’uscita dal conflitto d’interessi. Per esempio la collocazione del patrimonio in un fondo cieco. Se non si trovasse una soluzione condivisa, allora l’Authority potrebbe imporre «modalità alternative»: persino la vendita «tramite offerta pubblica». Passigli è tuttavia convinto che si possa anche evitare di giungere alle estreme conseguenze. «L’importante - dice - è assicurare l’effettiva separazione fra proprietà e gestione. Ed è evidente che un azionista come Berlusconi, che nomina gli amministratori e approva i bilanci, interviene eccome nella gestione». Ma per recidere il legame, spiega, «sarebbe sufficiente sterilizzare i suoi diritti di voto, senza necessariamente imporre la cessione delle partecipazioni». A titolo simbolico, Passigli ha già ripresentato al Senato il disegno di legge con l’emendamento che eviterebbe la vendita.
Sergio Rizzo



*****************************************************************




CORRIERE DELLA SERA
27 settembre 1999
QUEL PASTICCIACCIO DELLA PAR CONDICIO
di GIOVANNI SARTORI

«Par condicio» vuol dire che in qualsiasi gioco o contesa i contendenti devono essere in pari condizioni. Se no quel gioco non può essere giocato, visto che è già vinto o perduto in partenza. Un duello non può essere tra chi ha pistola e chi spada; una corsa non può essere tra un appiedato e un motorizzato; e in una partita a scacchi un giocatore non può avere due regine. Invece nella politica italiana esiste un protagonista che gioca con due regine.

Il problema delle pari condizioni viene spesso confinato agli spot. Ma a torto. Il problema si pone in tre contesti. Il primo è sì quello degli spot televisivi; ma il secondo è il contesto del conflitto di interessi; e il terzo investe il problema dell'incompatibilità. Sembrano discorsi diversi; e difatti lo sono. Ma si rifanno a un comune filo conduttore: al problema posto da un ingiusto vantaggio, da una concorrenza sleale, e quindi di una disparità che viola le regole del gioco democratico.

Comincio dagli spot. Non perché questo sia il problema più importante, ma perché è già in accesa discussione al Senato. La controversia sugli spot è ingigantita da una confusione tra pubblicità (in inglese, e più chiaramente detto, commercial) e propaganda politica. Ora - sia chiaro - nessuno si sogna di vietare la propaganda politica. Il divieto di spot vieta solo i commercials. E siccome questo divieto esiste in toto non solo in Spagna ma anche in Inghilterra, Germania e altri Paesi europei di indubbia fede democratica, è davvero difficile sostenere che il circoscritto divieto proposto dal governo D'Alema sia «liberticida». Aggiungi che in Italia il divieto di spot ha questa ragion d'essere in più: che a Berlusconi la sua pubblicità politica su Mediaset viene pressoché gratis, mentre gli altri partiti la debbono pagare a lui. Questa è una disparità di condizioni che non esiste al mondo, che nessuna democrazia può accettare, e che non sarebbe in alcun modo rimediata dal consentire spot gratuiti a tutti - Forza Italia inclusa - sulla televisione pubblica.

Al che Berlusconi ribatte che lui viene svantaggiato dalla televisione di Stato e che quindi lui si limita, con le sue reti, a riequilibrare la partita. Sì e no. Anche se le misure citate da Berlusconi (i minuti di presenza in televisione) sono irrilevanti e non provano nulla, è indubbiamente vero che la televisione di Stato dà più tempo e spazio al governo che all'opposizione. Ma così avviene «naturalmente» ovunque. Un po' perché la Tv pubblica è costitutivamente tenuta a dare «visibilità istituzionale» (che è cosa diversa dal propagandare) a quel che avviene nelle istituzioni. E in parte perché quel che un governo in carica fa è oggettivamente più importante di quel che l'opposizione ne dice. Il problema italiano non è questo. Il problema è che se Berlusconi andasse al potere lui «occuperebbe» la Rai (come ha già fatto nel '94, e, beninteso fanno anche gli altri) senza per questo perdere Mediaset. E in tal caso lui controllerebbe il cento per cento. O no?

Passo al conflitto di interessi. La fattispecie è contemplata nel nostro Codice civile (articolo 2373) nel quale si prevede che l'amministratore di una società si deve astenere dal voto quando è in gioco un suo interesse personale. Il principio è dunque che un interessato, una parte in causa, non deve avere il potere di favorire se stesso. Trasferito nell'ambito pubblico il conflitto di interesse si traduce nel reato di «interesse privato in atti di ufficio»: l'avvalersi di una carica pubblica per favorire un interesse proprio.

E non c'è dubbio al mondo che Berlusconi si trovi in flagrante conflitto di interessi, vuoi che sia capo del governo oppure leader dell'opposizione. Perché il Cavaliere si avvale del possesso di un impero di strumenti di comunicazione di massa per conquistare il potere politico, e poi usa il potere politico per rafforzare il suo potere economico.

Il conflitto di interessi è così patente che nemmeno Berlusconi lo nega, tantovero che viene da lui - quando era capo del governo - la proposta di sanarlo con il cosiddetto blind trust: il conferimento «cieco» del suo patrimonio a una amministrazione fiduciaria. Ma Berlusconi accetta il blind trust perché sa che questo ritrovato è efficace per un patrimonio finanziario, ma per niente «cieco» e quindi del tutto inefficace per un patrimonio industriale come il suo. Il Cavaliere vedrà sempre benissimo, anche se nessuno gli mostra carte, qual è l'interesse di Mediaset.

Che fare? Il disegno di legge sul blind trust è stato lungamente insabbiato dalla stupidità di una sinistra che ha creduto di avere in mano uno strumento di ricatto del quale Berlusconi giustamente ride (in effetti a lui il blind trust fa da comodo alibi). E ora stupidamente sta per arrivare, dopo essere stato stupidamente approvato all'unanimità (!) dalla Camera nell'aprile 1998, all'esame del Senato. Se verrà definitivamente approvato non servirà a nulla, sarà una ennesima beffa del bravissimo Cavaliere. E quindi temo che a questo punto il problema della «par condicio» possa essere affrontato soltanto in termini di incompatibilità, e quindi di ineleggibilità (proposta Passigli del '94, riproposta nel '96, e ora in coda al Senato).

Sia chiaro: il conflitto di interessi non comporta di per sé incompatibilità. Se la comporta è solo perché altre soluzioni non funzionano. Deve anche essere chiaro che l'incompatibilità è un principio generale del diritto a sé stante. Per esempio, chi fa il giudice non può contestualmente fare l'avvocato dell'imputato sottoposto a giudizio. Le due cose sono incompatibili, si escludono per definizione. E nell'esempio dato il conflitto di interessi non c'entra.

Sull'incompatibilità è naturale che Berlusconi si infuri: è l'unico principio che veramente lo mette in difficoltà. Ma il Cavaliere sbaglia quando dichiara che quel principio è ad personam, fatto su misura per lui. In verità la ineleggibilità parlamentare per motivi di incompatibilità esiste nel nostro ordinamento da più di quaranta anni.

In particolare l'articolo 10 del Dpr 30 marzo 1957 n. 361 stabilisce la ineleggibilità di chi gode di concessioni statali. Nessuno ne gode più di Berlusconi; ma resta che nel 1957 Berlusconi non esisteva, e quindi che quella «persecuzione» non è stata inventata per lui. Peraltro il Cavaliere ha davvero ragione di protestare alla luce del fatto che quella legge è sempre restata disattesa, e cioè aggirata da una interpretazione capziosamente legalistica della giunta delle elezioni della Camera, che la fa valere soltanto nei confronti del titolare legale di una concessione e non del vero proprietario.

Sono più di quaranta anni, dunque, che il nostro Parlamento viola spudoratamente e vergognosamente il principio della incompatibilità. Se vorrà perseverare nel violarlo, allora il pasticciaccio della «par condicio» resterà insoluto e diventerà sempre più insolubile.

L'alternativa è di argomentare che tardi è sempre meglio che mai. Nel primo caso avremo una democrazia sempre più malata impiombata da una concorrenza sempre più distorta. Nel secondo caso chi crede nella democrazia competitiva può ricominciare a sperare.



Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 23:35.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com