E' legittimo il rifiuto di presentarsi al lavoro, se privi di mansioni adeguate alla qualifica

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marco panaro
00lunedì 12 giugno 2006 20:13
Cassazione Sezione Lavoro n. 11430 del 16 maggio 2006, Pres. Mileo, Rel. Amoroso

Andrea L., dopo aver lavorato come impiegato di V livello in alcune società del gruppo Ilva, con mansioni attinenti alla contabilità, ha subito, nel 1996, mentre era dipendente della S.p.A. Sidecar Servizi Accessori, un totale demansionamento rimanendo privo di qualsiasi incarico. Dopo aver ottenuto dal Pretore di Genova l’accertamento della dequalificazione subita, il lavoratore ha accettato di passare, nel dicembre 1998, alle dipendenze della società capogruppo Ilva S.p.A., con la stessa qualifica, essendogli stata assicurata l’assegnazione di un adeguato incarico. Egli invece dapprima è stato collocato in cassa integrazione, sino al 23 aprile 1999, e successivamente, quando è tornato in azienda è stato tenuto a disposizione, senza alcun incarico, in una situazione di totale inattività. Con lettera del 13 maggio 1999 Andrea L. ha invitato l’Ilva S.p.A. ad attribuirgli un lavoro “confacente alla sua professionalità e alle sue mansioni”, precisando che, in difetto, a partire del 24 maggio 1999 non si sarebbe più presentato sul posto di lavoro. Poiché l’azienda non ha aderito all’invito rivoltole, Andrea L., a far tempo dal 24 maggio si è assentato, confermando peraltro di essere disponibile a svolgere i compiti che gli spettavano. L’Ilva S.p.A., dopo avergli applicato per due volte la sanzione disciplinare della sospensione, nel giugno del 1999 lo ha licenziato con l’addebito di assenza ingiustificata. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Genova sostenendo che l’azienda si era resa inadempiente all’obbligo, derivante dall’art. 2103 cod. civ., di farlo lavorare e che pertanto la sua reazione doveva ritenersi giustificata. L’azienda si è difesa affermando, tra l’altro, che se il lavoratore non si fosse assentato egli avrebbe potuto essere impiegato nel neo-costituito reparto marketing e statistiche. Il Tribunale ha rigettato la domanda perché ha ritenuto che la durata del demansionamento (circa un mese) non fosse sufficiente a giustificare la reazione del lavoratore. Questa decisione è stata integralmente riformata dalla Corte d’Appello di Genova che, dopo aver svolto un supplemento di istruttoria, sentendo alcuni testimoni, ha annullato il licenziamento in quanto ha ritenuto applicabile l’art. 1460 cod. civ., secondo cui, nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria. La Corte ha anche affermato che in ogni caso l’assenza del dipendente doveva considerarsi di “scarsa importanza”, perché egli non era stato chiamato a svolgere alcuna attività; il licenziamento doveva quindi considerarsi illegittimo anche per la mancanza di una grave inadempienza. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Genova per vizi di motivazione e violazione di legge.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11430 del 16 maggio 2006, Pres. Mileo, Rel. Amoroso) ha rigettato il ricorso. La Corte ha ricordato la sua giurisprudenza secondo cui il comportamento del datore di lavoro, che lascia in condizioni di inattività il dipendente non solo viola la norma di cui all’art. 2103 cod. civ., ma è al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento – ha affermato la Corte – comporta una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore).

La Corte d’Appello – ha affermato la Cassazione – ha fatto applicazione dell’art. 1460 cod. civ. ritenendo quindi legittimo il rifiuto del lavoratore di adempiere la propria prestazione in ragione dell’inadempimento della datrice di lavoro che continuava a non assegnargli mansioni corrispondenti alla qualifica e professionalità raggiunte; in proposito deve rilevarsi che il giudice, ove venga proposta dalla parte l’eccezione inadimplenti non est adimplendum, deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, per cui qualora rilevi che l’inadempimento della parte nei cui confronti è apposta l’eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte a norma dell’art. 1455 cod. civ., deve ritenersi che il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non sia di buona fede e quindi non sia giustificato ai sensi dell’art. 1460, 2° comma, cod. civ. La Corte d’Appello – ha rilevato la Cassazione – ha fatto questa valutazione e, con un tipico giudizio di merito non censurabile in sede di legittimità perché assistito da motivazione sufficiente e non contraddittoria, ha escluso che il rifiuto della prestazione lavorativa potesse considerarsi contrario alla buona fede; anzi la Corte d’Appello, svolgendo un supplemento di istruttoria probatoria, ha anche valutato il periodo successivo al maggio-giugno del 1999 pervenendo al convincimento che neppure in prospettiva vi era un’apprezzabile possibilità che ad Andrea L. sarebbero state assegnate mansioni confacenti alla sua qualifica. Inoltre – ha osservato la Suprema Corte – la sentenza della Corte d’Appello non si è limitata a ritenere applicabile l’eccezione di inadempimento (art. 1460 cod. civ.) con la conseguenza che, essendo giustificato il rifiuto del lavoratore di presentarsi al lavoro, il licenziamento intimato a seguito della (preannunciata) assenza del dipendente dal posto di lavoro è ex se illegittimo per difetto di giusta causa; essa ha infatti ritenuto illegittimo il licenziamento sotto un ulteriore e diverso profilo, quello dell’art. 1455 cod. civ.. La Corte d’Appello ha infatti ritenuto che l’assenza del dipendente, inquadrata nella situazione descritta, fosse da considerarsi di “scarsa importanza” perché comunque nessuna attività era chiamato a svolgere Andrea L. né dalla società è stata prospettata alcuna mansione che in concreto Andrea L. potesse essere chiamato a svolgere. Per ritenere la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento – ha affermato la Cassazione – è necessario che l’inadempienza contestata al lavoratore sia grave; pertanto, avendo la Corte territoriale valutato quest’ultima, in concreto, come “di scarsa importanza”, conseguiva la mancanza della giusta causa e del giustificato motivo. Si tratta – ha concluso la Suprema Corte – di una motivazione alternativa, posta parimenti a sostegno della conclusione di ritenere illegittimo il licenziamento, e che esprime anch’essa una valutazione di merito sufficientemente e non contraddittoriamente motivata e pertanto non censurabile in cassazione.
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