ENZO BIAGI, GHERARDO COLOMBO, ROBERTO SAVIANO

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INES TABUSSO
00venerdì 13 aprile 2007 15:43
L'ESPRESSO
12 aprile 2007
Ora parla Enzo Biagi
di Roberto Di Caro

espresso.repubblica.it/

Il ritorno in tv, su RaiTre, dopo cinque anni. Con la volontà di colpire ancora. Per trasformare le comparse in protagonisti.

Colloquio con Enzo Biagi

Lo studio è lo stesso semicerchio bianco de 'Il fatto', 'Il caso', 'Linea diretta', montato stavolta, un po' per comodità e un po' per riguardo agli 86 anni di Enzo Biagi, in uno studiolo di casa sua, in faccia alla Chiesa di Santa Maria dei Miracoli dove ancora oggi le spose milanesi portano per buon auspicio il loro bouquet. Anche la squadra, una dozzina di persone, in testa Loris Mazzetti autore con Biagi direttore, è la stessa che con lui ha girato mezzo mondo, "insieme a Sarajevo nel '98 e a Belgrado sotto le bombe nel '99", ricorda, "poi in Kosovo e a Ground zero nel novembre 2001, prima troupe al mondo ammessa a girare sul luogo chiuso dal giorno successivo al disastro". Titolo e formula, 'Rt/Rotocalco televisivo', riprendono invece esattamente quella che fu, nel 1962, la prima trasmissione di Biagi: quando il democristianissimo Ettore Bernabei lo chiamò a dirigere il telegiornale "nonostante sapesse che io votavo socialista", lui che veniva dalla direzione di 'Epoca' e che era cresciuto sulle immagini dei cinegiornali Luce s'inventò il rotocalco tv. Per la cronaca, siamo tre anni prima di 'Tv7'.

Dunque una specie di gentile amarcord, il ritorno in tv del Grande Vecchio, domenica 22 aprile alle 21.30 su RaiTre? Proprio il contrario. Uno che con quei suoi modi pacati e taglienti dà battaglia da tutta la vita non perde certo il vizio solo perché ha passato l'ottantina. Anzi. "In questi cinque anni di confino", dall'editto bulgaro dell'allora premier Silvio Berlusconi seguito a ruota dalla cancellazione de 'Il fatto' nonostante i premi e gli indici di ascolto, "noi con la testa siamo sempre stati in onda", confessa quasi con candore: "Se ci chiamano, ci dicevamo, dobbiamo essere pronti a scendere in campo con le idee giuste e i muscoli allenati". Ecco, ora succede: dopo lo speciale di domenica, 'Rt/Rotocalco televisivo' andrà in onda da lunedì 23 per otto settimane, produzione RaiTre di Paolo Ruffini e Tg3-Primo piano di Antonio Di Bella, in seconda serata alle 23.15. Il secondo giro comincerà all'inizio di ottobre.


Cosa ci racconterà 'Rt'? Intanto "quei moltissimi italiani per i quali il mese ha una settimana di troppo, perché il giorno 20 non hanno più i soldi neppure per mangiare": non solo i poveri vestiti da poveri, quelli che basta buttare l'occhio e t'accorgi che vita fanno, ma anche "l'impiegato ex o presunto ceto medio che con due figli e gli alimenti da pagare è costretto a passare la notte al dormitorio pubblico", anticipa. Cova l'ambizione di "rendere protagonisti, nel nostro spazio, quelli che di solito vengono considerate comparse": di raccontare le loro storie, magari di capitare una sera a cena a casa di uno di loro e dargli voce. La politica? "Sì, certo, ma non i politici": con tutto il rispetto ("Fu Giancarlo Pajetta a farmi andare in Cina ventott'anni fa") parlano anche troppo. Del resto "dove sono più i politici come Ferruccio Parri, che una volta mi raccontò di viaggiare nottetempo perché non si poteva pagare gli alberghi? Aveva ragione Corrado Alvaro, dei politici voglio sapere non solo cos'hanno in testa, ma anche quanto hanno in tasca".

Attori e artisti e personaggi dello spettacolo, loro sì ci saranno. Ma non in veste di intervistati. Racconteranno ciascuno una loro storia. Così Paolo Rossi sarà un signor Rossi qualsiasi alle prese con la vita e le beghe quotidiane nel condominio Italia, Fabio Fazio dovrebbe narrare i luoghi del commissario Maigret di cui va pazzo, Andrea Camilleri scorderà Montalbano per disquisire del suo amato gatto, e Vauro il vignettista mostrerà finalmente i segni tangibili e ingombranti della sua vera mania: collezionista di memorabilia e divise dell'Armata Rossa, le ha piazzate in bella mostra a casa sua su 200 manichini.

E il bianco semicerchio delle interviste? Vi si siedono di fronte, nello Speciale di domenica 23 che ha per tema la Resistenza ma anche chi oggi resiste e contro che cosa, Gherardo Colombo dopo il suo addio alla magistratura e lo scrittore di 'Gomorra' Roberto Saviano. Presa diretta e riflessione sull'oggi, dunque. Alla memoria, semmai, è riservato uno spazio ad hoc con la riproposizione, quando la cronaca lo suggerisce, di uno stralcio di qualche storica conversazione di Enzo Biagi: si comincia con sette splendidi minuti di Primo Levi, anno 1977.




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13 aprile 2007
Le regole la mia legge
Il sistema giudiziario lasciato allo sbando. Una cultura che rifiuta le norme. Ecco perché Colombo lascia la toga.

Stralcio dell'intervista di Biagi a Gherardo Colombo:


Un addio in silenzio, che dovrebbe diventare assordante per le coscienze degli italiani. Gherardo Colombo, il pm che indagò sulle coperture a Michele Sindona, che smascherò la loggia P2 di Licio Gelli, che condusse le indagini di Mani pulite e i processi a Silvio Berlusconi, lascia la magistratura. E per la prima volta spiega le ragioni del suo gesto. Ecco uno stralcio dell'intervista concessa a Enzo Biagi.

Dottor Colombo, lei ha deciso di abbandonare la toga. Cosa c'è oggi nel suo animo, rimpianto, delusione, rabbia?
"Sicuramente non c'è rabbia. E anche per quel che riguarda rimpianti e delusione, io vedo questa mia decisione in una prospettiva un po' diversa. Ormai sono 33 anni abbondanti che faccio il magistrato: ho sperimentato il funzionamento della giustizia. Ripeto ho maturato, ho sperimentato - anche perché contemporaneamente mi è successo di andare a parlare nelle scuole, nei circoli, nelle parrocchie, un po' ovunque - il fatto che è difficile, difficilissimo far funzionare la macchina della giustizia senza che da parte dei cittadini ci sia una forte condivisione delle regole. E allora la mia decisione è dipesa da quello. Io credo che sia molto importante cercare, nei limiti del possibile, di comunicare con le persone, con i giovani soprattutto, quale sia il perché delle regole e quale sia la loro importanza".

Quanto ha contato la politica nella sua scelta?
"Mah. la politica può aver contato per quel che riguarda la mancanza di interventi forti sulle regole che servono a far funzionare meglio la giustizia, sugli strumenti che consentono a tutto l'apparato giudiziario io non parlo soltanto di magistrati, mi riferisco in genere a chi opera nella giustizia , sui mezzi che servono a far funzionare meglio questa macchina che vista sia dall'esterno che dall'interno, sembra così farraginosa e si muove con grande difficoltà. Sappiamo tutti che i processi durano tantissimo. Io credo anche che le garanzie non sempre siano distribuite in modo esatto, magari qualche volta ce ne sono troppe, ma in altri casi ce ne sono anche troppo poche. E allora io credo che, ma non solo alla politica, più in generale alle istituzioni, si possa addebitare il fatto che la giustizia non funziona bene".

Che destino attende il corrotto? Magari una bella carriera?
"Chi lo sa: dipende poi dalle situazioni personali. Il fatto è che se non esiste un atteggiamento complessivo della società, io direi, delle persone, delle regole, delle istituzioni verso i reati e quindi anche verso la corruzione. Se non esiste un atteggiamento di riprovazione, poi è più facile che il corrotto faccia magari una bella carriera".

Non c'è stato un momento o un episodio nel quale lei ha sentito che sembrava quasi che questo paese avesse smarrito il senso della legalità?
"Io credo che nel nostro paese la relazione con la legalità, con le regole che hanno come riferimento la Costituzione, che la relazione tra le persone e le regole sia una relazione incredibilmente sofferta. Come si potrebbe spiegare altrimenti che provvedimenti di clemenza, condono edilizio, condono fiscale e via dicendo, continuano a ripetersi, praticamente da quando siamo una repubblica. Questi provvedimenti richiedono, per essere di qualche utilità, che la devianza sia massiva, e quindi sono un indice di cattivo rapporto con le regole".

Una specie di carattere nazionale allora?
"No, io non credo che sia un carattere nazionale".

Un aspetto della vita italiana?
"Un aspetto della - molto molto tra virgolette - 'cultura italiana', del modo di intendere la vita e le relazioni. Forse noi apprezziamo di più la persona furba che elude le regole, piuttosto chi cerca di impegnarsi perché siano trattati gli altri allo stesso modo di come si è trattati".

Se un magistrato butta la spugna, il cittadino qualunque a chi si deve affidare?
"Io premetto che non butto la spugna. La mia non è una decisione di rinuncia, la mia è una decisione di impegno. Io credo che si possa, nei limiti ovviamente del possibile per ciascuno di noi, nei miei piccoli limiti, che si possa fare molto per la giustizia operando fuori dalle strutture istituzionali. Io credo molto nel modo di essere delle persone rispetto alle regole. Penso sia importante che ai ragazzi e non solo, sia proposta una riflessione su come riuscire a capire il significato delle regole, partendo da lontano, andando alla storia, provando a leggere Antigone e via dicendo. Quello che vorrei fare io nel futuro è cercare di comunicare, attraverso libri, riuscendo a parlare con i ragazzi, con le persone. Non è un gettare la spugna. Io credo che se i cittadini si impegnassero nel vivere la propria vita badando anche alle regole. Pensi a quante cose noi badiamo: stiamo molto attenti a come ci vestiamo: i ragazzi hanno tutto o quasi tutto griffato e via dicendo. Stiamo attenti, attentissimi al cibo; ci piace avere un'automobile che sia in consonanza e in sintonia con la nostra persona, ci piace farla vedere agli altri; ci piace mostrare una bella casa, eccetera. Ci preoccupiamo di una serie di aspetti della nostra vita. Non altrettanto facciamo con un punto di riferimento che secondo me è essenziale, che sono le regole".

Conta quindi più mostrare che essere?
"Tante volte sì. Io credo che si sia persa un po' l'idea dell'essere. Si è dimenticato che esiste anche un essere, oltre all'apparire".

Quindici anni dopo, che bilancio si sente di fare dell'esperienza di Mani Pulite?
"Io constato che attraverso queste indagini si è scoperto molto. Credo si ricordi che prima del 17 di febbraio del 1992 si parlava di questo fenomeno della corruzione che era così esteso nel paese, però di fatti ce n'erano pochi, pochissimi. Da allora in avanti per quei tre, quattro, cinque anni in cui si è investigato sulla corruzione, di fatti ne sono emersi tanti, tantissimi: sono emersi episodi dettagliati, sono emerse le transazioni finanziarie. Io credo che sotto questo profilo l'informazione, la giusta informazione che è conseguenza naturale del processo pubblico, sia stata una cosa positiva. Per quel che riguarda i risultati all'interno del processo, beh, chissà quante sono le posizioni che sono finite in prescrizione, e quante sono le posizioni che sono finite con un proscioglimento perché sono cambiate le regole del processo, perché sono cambiate le regole sostanziali, perché una cosa che prima era reato adesso è un pochino meno reato e via dicendo. Allora sotto il profilo rigorosamente giudiziario, io credo che il risultato non sia stato quello che ci si aspettava".

Il potere non cerca di fare la giustizia a sua misura?
"Sì io credo che il potere cerchi di espandersi, magari anche al di là, qualche volta, delle possibilità che gli danno le regole. A proposito dell'esperienza di Mani Pulite, per quanto riguarda gli aspetti personali sicuramente è stato un periodo intenso, quindici anni, in cui sono successe tante cose. Ci sono stati dei dolori molto forti, per quel che riguarda me, non è mai indolore inserirsi così nella vita delle altre persone".

Cosa pensa dei colleghi che hanno scelto la politica?
"Guardi non penso proprio niente. Io credo che siccome le regole lo consentono è una cosa che si può fare. Io posso dirle però che per quel che riguarda me, io credo che sarebbe una bella cosa inserire un intervallo, un intervallo di una certa consistenza, fra l'esercizio dell'attività di giudice o di magistrato in generale e il dedicarsi all'attività politica. Primo. E secondo, non dovrebbe esistere la possibilità di tornare indietro. Questa è la regola che io mi prefiguro e per quel che riguarda invece le mie scelte personali, io credo che sia molto importante cercare di operare nella società. Ribadisco una cosa che riguarda me: una volta in cui si decide di non far più parte di un'istituzione, forse, il rivolgersi ad altri campi, completamente diversi, è una cosa che mi si addice di più".




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13 aprile 2007
Saviano incontra Biagi:
Guai a raccontare questo Paese
di Roberto Saviano

L'incontro tra l'anziano giornalista e il giovane scrittore. In una società dove non si perdona chi dice la verità

Ci sono dei momenti in cui hai l'impressione di attraversare il tempo diversamente, come se secondi e minuti si unissero in una specie di coltre, costringendoti a comprendere che ogni momento ti resterà tracciato nella memoria. Vivere il ritorno televisivo di Enzo Biagi è uno di quei momenti. Quando Loris Mazzetti, giornalista e regista, mi ha portato l'invito di Enzo Biagi ad andare in trasmissione avevo compreso la necessità di quest'incontro, la necessità di partecipare al ritorno di qualcosa che era stato spezzato piuttosto che interrotto.

Enzo Biagi l'ho incontrato a casa sua. Abbiamo mangiato insieme. Lentamente. Parlava con tono chiarissimo, e non sembrava neanche per un momento aver perso la capacità di ficcarsi dentro le questioni e divertirsi a discutere con le cose che pulsano, valutando i veri meccanismi piuttosto che gli epifenomeni. Mi ha parlato come se conoscesse ogni cosa di me, ogni cosa detta, scritta e persino pensata. Discutiamo sullo stato di cose, una sorta di ricognizione degli elementi del disastro. Su una politica che non ha la geometria della buona amministrazione e né l'energia di muovere grandi passioni. Su un Paese spaccato in due, dove Nord e Sud non comunicano, dove tutto possiede un'unica dimensione del racconto, dove sempre meno si conosce ciò che avviene e tutta l'attenzione è rapita dal ginepraio della politica, discutiamo di un Paese dove "il pensiero di un parlamentare rischia di avere un peso maggiore rispetto a quello che accade".

D'improvviso mi guarda e chiede un'attenzione particolare. "Mi ascolti, bene", dice, fermandomi la mano mentre mangiavo: "Lei ha raccontato questo Paese, nessuno glielo perdonerà mai. Nessuno perdona in questo Paese quando si viene ascoltati. Nessuno. Troppe persone l'hanno ascoltata, questo non glielo perdoneranno politici, colleghi scrittori, giornalisti, mi creda. Nessuno qui vuole sapere come stanno davvero le cose. Chi lo fa è come se mettesse in fallo tutti gli altri che non vengono ascoltati e per questo non si incolpano ma incolpano gli altri". Biagi poi racconta di quando era andato al matrimonio di Giovanni Falcone: "Fino alla fine hanno diffidato di lui, solo con la sua morte è riuscito a dare giustizia al suo lavoro. Che la sua strada era la strada giusta per modificare il mortale rapporto tra cosa nostra e politica. Solo dopo la morte tutti l'hanno compreso. Un Paese che riconosce queste cose solo dopo il sacrificio è un Paese malato". Enzo Biagi non ha perso la lucidità dello sguardo: è complesso discutere, ciò che nelle discussioni è per me citazione, bibliografia, verso tirato giù a memoria, citazione conservata nello stomaco, per lui è memoria reale; ciò che ho letto, lui l'ha conosciuto, incontrato, criticato, ascoltato. E genera una sorta di sensazione di straneamento, come se le mie parole fossero di una materia di inchiostro e carta e lui invece avesse sentito l'odore del sudore di ciò che ho potuto conoscere solo con la mediazione della scrittura.


Una voce ci chiama: "Al trucco". Ci passano sul viso una specie di ovatta imbevuta di qualcosa. Loris Mazzetti però lo chiama mentre accompagnato dalla figlia Bice sta per andare a sedersi nella poltroncina della trasmissione. Si guardano: "Enzo, cinque anni... Enzo, cinque anni... Ora torniamo". Biagi si commuove, Mazzetti sembra stringere i denti. È come scoccata un'ora, un momento in cui il veto viene a cadere, aver resistito sembra esser stato il comportamento più corretto, una forza che viene da lontano che ha i muscoli allenati già a superare velenosi pantanti melmosi, il fascismo, le Br, la Democrazia cristiana, il Pci, Tangentopoli. Ci incontriamo nello studio, Biagi mi sorride, e sibila: "Senza il sud questo paese sarebbe un paese mutilato, povero. Non sopporto chi blatera contro il sud".

Impossibile non vivere una sorta di flashback, vedere dinanzi a lui tutti i visi: mi è apparso Pasolini quando dinanzi a Biagi lancia la sua accusa verso la televisione di massa, quando proclama di credere nello sviluppo "ma non in questo sviluppo". È come vederseli tutti. Siamo lì nello studio, la regia è pronta. Nessuno sa bene cosa avverrà e come avverrà: è passato molto tempo e quasi ci si è dimenticati di come funzionano le cose, e l'emozione di tutti è palpabile persino ascoltando i respiri, come se tutti avessero fatto una corsa. Siamo invece tutti immobili da mezz'ora. Con Biagi e Mazzetti discutiamo: "Parleremo d'ogni cosa. di quello che si può dire e di ciò che non si può dire. Su quanto è impensabile dire in tv e su quanto dovremmo invece dire, sulla letteratura e sulla capacità di raccontare. ancora questo Paese". Biagi si è sistemato dinanzi a me, i riflettori caldissimi, le telecamere accese. Gli occhiali di sempre, lo sguardo ai fogli dinanzi a lui e il mezzobusto che ha raccontato un Paese, si materializza dinanzi ai miei occhi. Ogni stanchezza scompare, persino ogni malinconia scompare. Biagi è lì come se nulla fosse capitato, come se nessuno l'avesse cacciato, come se l'ultima intervista l'avesse fatta il pomeriggio precedente, come se fuori la porta fossero appena usciti Mastroianni e Pasolini, ancora fermi sul pianerottolo. Come se tutto iniziasse adesso, ma con un origine di sempre mai interrotta. Come se tutto dovesse ancora essere raccontato, testimoniato, come se sino ad oggi si fosse compiuto solo l'inizio del percorso. Tre... due... uno. via.







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