FURIO COLOMBO TORNA IN AULA E RACCONTA

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INES TABUSSO
00lunedì 22 maggio 2006 00:34
L'UNITA'
21 maggio 2006
Amnistia
Furio Colombo

Forse questa è una parola chiave per leggere il discorso di Romano Prodi che ha presentato il suo governo al Senato, un discorso che si è snodato come un grande, accurato, puntiglioso rapporto sul Paese Italia, con il coraggio pedagogico di non lasciare in ombra nulla, di non sorvolare, di non prendere suggestive scorciatoie. La parola chiave è amnistia.

Nel contesto di giovedì e venerdì scorso al Senato, amnistia è prima di tutto l´impegno a smettere di voltare le spalle, magari con l´aria del manager che ha ben altro da fare, al dramma spaventoso delle carceri italiane. Prodi ha ricordato ai finti credenti con quale calore, di fronte alle telecamere, avevano battuto le mani al Papa (Giovanni Paolo II) che chiedeva di intervenire. E ha indicato ai finti liberali il lungo percorso del progetto amnistia (lanciato, ricordate? dai Radicali) uno dei punti forti di collegamento tra fede religiosa e religione civile.

C´era Emma Bonino seduta al banco del governo, due posti più in là di Prodi, ma a destra nessuno ha raccolto questa parola, questo impegno, questo invito, preferendo parlare di niente in fitto irato politichese.

Il sensibile ex ministro della Giustizia Castelli ha amabilmente interrotto il discorso del presidente del Consiglio con la battuta «Fategli un applauso, se no si offende». Da leghista è certo persuaso di essere stato spiritoso. Il senatore di Forza Italia Emiddio Novi, ha argomentato, come nell´imitazione di un telefilm, sul tema: "ci descrivono cattivi, con classificazioni lombrosiane". E ha trovato opportuno, per rendere più persuasiva la sua arringa, di citare come colpevole il giornale l´Unità. Probabilmente lo ha fatto perché gli è accaduto di vedermi di fronte, dall´altra parte dell´aula, e gli è venuta l´idea. Restavano lo stesso alcuni minuti da riempire. Ha deciso di leggere i dati elettorali già noti a tutti da quarantadue giorni. Ha cominciato a leggere dai suoi tabulati: «Nelle operose regioni del Nord ...» Ma quando ha esclamato: «E continuo», il presidente Marini si è affrettato a spiegargli: «No, senatore, lei adesso finisce». Diligentemente il senatore ha concluso, ma amnistia niente.

Quando è toccato a Berselli, di An, l'espediente è stato la creatività. Si è inventato che «la sinistra estrema che assedia Prodi ha chiesto l'abolizione del 2 Giugno, festa della Repubblica». Ha creduto di poterlo fare in quanto alcuni, da sinistra, effettivamente si erano chiesti se la parata militare alla sovietica fosse davvero l'unico modo per festeggiare la nascita della democrazia e della identità di un Paese.

«Niente armi, niente party», deve avere pensato Berselli. In ogni caso non una parola sullo sfollamento urgente delle carceri, sul gesto umano di ridare respiro a esseri umani.

A parte Castelli, la Lega si è fatta sentire anche con il senatore Stiffoni, che con molta disinvoltura ha proposto: «Approvate la nostra riforma e diventeremo amici». Come incoraggiamento ha aggiunto: «Se la approvate, il Senato diventerà soltanto la Camera delle Regioni, e non dovrà più fare leggi né votare la fiducia ai governi». Voleva che Prodi riflettesse sulla fortuna che gli sarebbe toccata se il Senato della Repubblica fosse già stato ridotto a un rudere alla Piranesi dalla premiata Lega di Borghezio e Gentilini.

Eppure Prodi aveva parlato di guerra da rifiutare, di Europa da rianimare, di Mediterraneo, di America Latina, di Africa che non può essere abbandonata, di grandi economie che nascono in Asia e non possono essere ignorate, di illegalità, di regole, di conflitto di interessi, di informazione televisiva, di futuro dei giovani, di costo del lavoro, di immigrazione, di famiglia, di salute, di scuola, di Università, «dei conti che troveremo».

«Siamo un Paese industriale che deve ricominciare a fare politica industriale». Solo su questo punto c'è stato, da parte della metà di destra del Senato, un profondo forse imbarazzato silenzio. Prima e dopo avevano sempre interrotto. Per esempio hanno interrotto furiosamente sulla guerra, con uno strano e curioso ritorno alla frenesia interventista del 1915. Alla frase sull'errore della guerra in Iraq (versione mite di ciò che dicono ogni giorno al Senato americano Ted Kennedy e John Kerry) è scoppiato un putiferio. Perché? Evidentemente domina ancora - o torna a dominare - il riflesso di una destra primitiva ancora legata all´antica mitologia del combattere come unico gesto degno dell´uomo guerriero.Qualunque primo ministro democratico, in una situazione di emergenza economica, mentre si riaccende furioso il conflitto armato in Afghanistan e diventa ancora più sanguinosa la guerra civile in Iraq, avrebbe fatto il discorso di Prodi: puntigliosi impegni (per ogni domanda una risposta) e chiare affermazioni,senza evitare o glissare su alcuna questione che riguarda l'Italia. Il riferimento al problema delle carceri, e dunque all´amnistia, come segnale disinteressato e civile per ricominciare, avrebbe potuto essere - e credo che sia stato pensato - come indicazione di un territorio naturale comune.

La risposta, invece, è stata interrompere, vociare, gridare a caso sempre due o tre slogan presi dalla loro campagna elettorale infinita. Per esempio: «Quale famiglia? La vostra è una accozzaglia!» (Sen. Cantoni). «Quale legalità? L'opinione della gente, che ho personalmente verificato, ci dice che votare per voi è come dare un voto contro l'Italia» (Senatrice Alberti Casellati). «Quale scuola!» tuona per Alleanza Nazionale il senatore Matteoli. Non si sa con quale orgoglio di partito proclama: «La scuola l'abbiamo fatta noi!».

«Voi - ricorda pacatamente Prodi, voltandosi verso la riottosa parte del Senato schierata a destra - avete fatto la crescita di meno dell'1%».

Fa effetto, anche da un punto di vista cinematografico, vedere Storace che ride, ride non si sa perché quasi sempre, come per un incontenibile spunto di felicità o di euforia, che certo non ha alcun riscontro nei fatti. Il continuo sghignazzo, l´irridere, il gridare parole sgradevoli più o meno in ogni momento sembra la trovata di un regista eccessivo e malevolo.

Prodi: «Vorrei dire una cosa se le vostre interruzioni me lo permettono». E torna a ripetere: «L'industria è ferma, il commercio con l'estero è crollato». A destra si rivoltano con furore, non tutti, ma tanti, con il goliardico impeto del tempo libero. Forse non gli pare vero di essere non più responsabili del disastro. E hanno troppa nostalgia per la loro campagna elettorale di terra bruciata.

Calderoli ha due ruoli. A volte sale al posto di Marini e dirige il dibattito. A volte, con la sua stazza e la sua vistosa cravatta verde, sale e scende le scale dell'emiciclo e, come un domatore, segnala ai suoi - o sottolinea - le interruzioni e le intemperanze più colorite, continuando a muoversi in uno spazio da racconto di Garcìa Màrquez. Un allucinato realismo magico, una visione stravolta che lo fa scivolare nel brutto sogno.La parola chiave resta amnistia, ed è come avere deposto una lampada sul terreno brado e cosparso di macerie che sembra dividere le due parti. È più di un gesto simbolico per dire che, se davvero si volesse fare del lavoro in comune, ci sono impegni nobili, che si possono prendere alla luce del sole, davanti a tutti i cittadini e anzi insieme a loro per alzare almeno un poco la soglia di civiltà di un Paese disorientato dal monopolio e dalla amministrazione controllata delle notizie, incattivito dalla xenofobia della Lega, umiliato dalle cose dette e fatte da chi si è impegnato non solo a spaccare il Paese (brutta realtà che per loro è un vanto, e infatti ridono quando Prodi dice che spera in un po' di rispetto reciproco, se non di armonia e di concordia) ma anche a frantumarlo nella cosiddetta riforma della Costituzione che fra poco sarà cancellata.

E poi Castelli. C'è un nome, una persona, una vita più estranea e indifferente alla parola amnistia? Infatti Castelli è troppo impegnato nella sua tipica attività di "casseur" - mai interrotta neppure al ministero della Giustizia - e troppo preso dal suo metabolismo che lo spinge comunque all'attacco. Come hanno già fatto prima altri suoi colleghi, proclama che la loro riforma di frantumazione del Paese (detta, nel loro dialetto, «devolution») non si tocca.

Troppo poco? No. Accusa il presidente del Consiglio di avere fatto cadere, con le sue dichiarazioni al Senato, importanti titoli in Borsa. Troppo poco? Allora offende i senatori a vita ammonendoli a non votare Prodi. «Non siete mica stati nominati per ragioni politiche», come dire: «Non vi impicciate».

Troppo poco? C´è anche una citazione falsa dal New York Times. Castelli finge di leggere dal quotidiano americano «il governo Prodi durerà poco». L'articolo vero (in prima pagina, continua a pag. 4) elenca con cura non solo i passaggi salienti dell'intervento di Prodi (scegliendo frasi come «Qui non ci sono nemici. Qui ci sono solo persone che vogliono il bene dell'Italia») ma anche le frasi e le grida con cui il discorso di Prodi è stato continuamente interrotto. "Catcalls" dice il giornale per far notare la rudezza della metà berlusconiana dell'aula. Mai, in nessun punto esiste la frase o il senso suggerito da Castelli.

Per l'ex ministro della Giustizia una attenuante generica. Legge poco e certo non la stampa internazionale. Ha letto male da una agenzia che citava "il conservatore Times" per indicare il celebre Washington Times, foglio di estrema destra neocon della capitale americana che vende meno di 20mila copie per fans e abbonati.

La passerella tocca infine a una celebrità del «reality» Porta a Porta, noto per l'inclinazione alla simpatia. È il sen. Schifani. La voce ventriloqua di Berlusconi, già resa illustre da alcune tra le più imbarazzanti leggi ad personam, inaugura uno stile da guerra totale con il grido: «Lei ha offeso le Forze Armate. Deve chiedere scusa!». E con lui tutta la destra del Senato precipita in un triste 1920, di penoso interventismo fuori tempo, fuori luogo ed estraneo alla realtà.

Da Schifani apprendiamo con tristezza che il sacco delle istituzioni continua a essere l'obiettivo prediletto, come durante il governo Berlusconi, come durante la più brutta campagna elettorale mai vissuta.

Quando Anna Finocchiaro parla per l´Ulivo, si ha la sensazione di un ritorno alla normalità psichica e politica, come su un aereo dopo un periodo di intensa turbolenza. Ci sono persino momenti di silenzio. Tra poco ci saranno gli umilianti boati e insulti della destra quando andranno a votare i senatori a vita. Tutti i senatori a vita - tutti - votano sì al governo.

Da destra, come in uno stadio nelle giornate a rischio, urlano contro Scalfaro e contro Ciampi. E non è vero che smettono quando Rita Levi Montalcini passa davanti al presidente per dire il suo sì. Solo qualcuno, forse, davanti a lei comincia a provare vergogna o almeno imbarazzo.

La descrizione di ciò che è accaduto nella curva sud del Senato spetta al presidente Marini. «Colleghi, il vostro comportamento è indecente». Seguono altre urla. Come è noto, come i lettori ormai sanno la manifestazione di alto profilo istituzionale inscenata dalla Casa delle Libertà non ha fermato Prodi, che ha avuto il voto di fiducia. Ma ha raggiunto un suo risultato: non si è parlato di nulla. Non si è parlato dell´amnistia. Guerra, dunque, anche sulla pelle dei carcerati.



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