MERCATO E IMPRESE STRATEGICHE / TELECOM E RAI: CHE COSA DEVE E CHE COSA NON DEVE SAPERE IL GOVERNO

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INES TABUSSO
00giovedì 14 settembre 2006 16:55
LA STAMPA
14 settembre 2006
Che cosa deve sapere il governo
Mario Deaglio


NON ne abbiamo saputo niente in anticipo», ha dichiarato il presidente del
Consiglio a proposito della decisione di Telecom di scorporare la consociata
Tim, una delle maggiori imprese mondiali di telefonia mobile. Per contro, sulle
scelte interne della Rai, governo, Parlamento e partiti hanno saputo anche
troppo, se è vero che i nomi di direttori di rete e perfino dei conduttori di
programmi sono stati discussi e contrattati per settimane tra le forze
politiche. Sorge così l’interrogativo, comune a tutte le economie con una forte
componente di mercato, su quanto e quando il governo debba «sapere» e su quanto
e quando possa o debba intervenire per bloccare o correggere decisioni di
mercato.
Nel caso di attività economiche che rivestono importanza fondamentale, la
risposta è chiara. I governi devono non solo essere informati ma anche muniti
di strumenti che consentano di far valere interessi che vanno al di là di
quelli degli azionisti e che toccano, in alcuni casi, l’essenza stessa del
Paese. Persino l’imperatrice del liberismo, la signora Thatcher, non ebbe
esitazioni a porre il veto quando gruppi finanziari arabi volevano acquistare
la British Petroleum; gli americani, che tutti i giorni fanno lezione sulle
virtù del mercato, bloccano l’ingresso degli stranieri nei settori che
considerano strategici, come le linee aeree o l’industria bellica.
Il problema non è quindi se ai governi debba essere consentito di muoversi in
questa direzione, quanto quello delle garanzie che queste mosse non vadano a
vantaggio dei loro amici oppure a svantaggio dei loro avversari. Devono quindi
essere stabiliti dei parametri oggettivi che consentano di determinare l’
importanza di un’impresa in uno specifico sistema economico. Tra questi
parametri ci sono indubbiamente le dimensioni, l'importanza tecnologica, il
carattere più o meno essenziale del prodotto o del servizio.
In questa luce, appare evidente che il gruppo Telecom riveste un valore
strategico per l’economia italiana. Non solo, infatti, la Telecom è una delle
maggiori imprese del Paese ma è anche una delle poche ad operare, talora con
tecnologie originali proprie, in un settore avanzato; è inoltre di gran lunga
il principale operatore su una serie di reti attraverso le quali scorre, e
sempre più scorrerà, la vita economica e civile dell’Italia.
E’ quindi della massima importanza - al di là delle forme giuridiche - che la
creazione di valore per gli azionisti non si traduca in perdita di valore per
gli utenti e i dipendenti e soprattutto per l’Italia nel suo complesso, con le
sue incerte prospettive tecnologiche ed economiche attuali. Per questo il
governo, dal quale dipendono molte delle concessioni in base alle quali questo
gruppo opera, deve essere informato, consultato e richiesto di un consenso su
alcune decisioni «estreme»; il tutto deve avvenire, come succede a esempio
negli Stati Uniti, non sottobanco ma alla luce del sole. Se poi vi sono, come è
naturale, colloqui riservati tra le parti, non sembra corretto che una ne
riveli il contenuto all’insaputa dell’altra.
Se nel caso Telecom, quindi, è evidente che il governo «deve sapere» e deve
poter agire in conseguenza di quello che sa - ovviamente nel rispetto delle
regole europee - nel caso Rai il governo «deve non sapere» e non agire. Il
carattere pubblico dell’emittente radiotelevisiva è fin troppo garantito, tanto
che si può dire che sono i vertici della politica a nominare i vertici dell’
azienda. Essendo la Rai un’impresa, i suoi dirigenti devono operare in perfetta
autonomia per il raggiungimento di obiettivi loro assegnati (di audience, di
aree tematiche, di carattere finanziario); vanno sostituiti se gli obiettivi
non vengono raggiunti.
Il controllo a posteriori sul contenuto dei programmi non può riguardare la
sola Rai ma ogni tipo di trasmissione radiofonica, televisiva o telematica
sulla base di criteri di rispetto delle leggi, decenza, moralità pubblica e
simili; va affidato a un apposito organo ad azione rapida, sganciato dalla
politica, come avviene in molti altri Paesi avanzati. Al di là di questo limite
minimo, il controllo deve spettare ai cittadini-telespettatori o
radioascoltatori: se al mercato «si vota con i piedi», come diceva Einaudi, in
televisione si deve poter «votare con il telecomando».
E’ per certi versi desolante e per altri vergognoso che per la Rai si possa
tranquillamente parlare di reti, programmi e uomini descritti come «in quota» a
questa o quella forza politica come se il consiglio di amministrazione non
esistesse; e che d’altra parte i consigli di amministrazione di grandi società
possano prendere decisioni come se il Paese non esistesse. Se non supera queste
contraddizioni, l’Italia ha poche speranze di un’evoluzione all’altezza dei
tempi.

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