MICHELE SERRA: L'ITALIA NEL PALLONE

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INES TABUSSO
00giovedì 11 agosto 2005 00:54

la Repubblica
10 agosto 2005

L´Italia nel pallone
MICHELE SERRA


CHE cosa triste è diventata il calcio, sentina emotiva dell´italianità più
arcaica e fragile. Quella del campanilismo amorale. Con vescovi e podestà
uniti nello sdegno a corto raggio, quello che si ferma ai confini daziari
di un Paese che pare ricalcare, in piena modernità, la sua impronta medievale
e municipalista, e opinioncine pubbliche sempre pronte a confondere l´onore
cittadino con le sorti della squadra di pallone travolta dai debiti o infamata
da illeciti e manfrine.
E puntuali sommosse di ultras che bloccano stazioni o traghetti in un "boja
chi molla" a fisarmonica che si sposta a Nord o a Sud, a Est o a Ovest a
seconda che la giustizia sportiva e le istituzioni calcistiche tirino la
coperta troppo corta in su o in giù, di qua o di là.
Nessun colpevole, mai, solo vittime di ingiustizia dalle Alpi al Mediterraneo,
solo pesi e misure che vengono ripudiati perché sospettati di provenire da
potentati ostili, da città più influenti e maneggione, con grotteschi cartelli
inalberati in cima a grotteschi cortei che maledicono le tribù nemiche. E
titoli di giornale colpevolisti o innocentisti a seconda dell´area di diffusione,
perché nessuna regola e nessuna giustizia è riconosciuta super partes, non
solo l´arbitro è cornuto, anche il giudice sportivo.
E adesso ? notizia di ieri ? pure il Tribunale di Genova che, pro-Genoa,
chiede la sospensione dei calendari del calcio, atto che avrà certamente
il suo perché tecnico-tattico, ma intanto precisa e aggrava l´impressione
di parossistico orgoglio municipalistico che ispira qualunque atto o gesto
di questi giorni di follia collettiva, con il vecchio, rispettato e rispettabile
avvocato Biondi che parla da principe del diritto ma pure da tifoso genoano,
e vai a capire, in questo clima, dove cominciano le ragioni e dove finisce
la cecità delle passioni.
Nei giorni scorsi ci è toccato il puro scandalo del blocco dello Stretto
da parte di due o trecento ultras del Messina, passati in poche ore dalla
sedizione agli osanna perché la loro squadra è riuscita a infilarsi, in extremis,
attraverso la tardiva e smagliata griglia dei controlli finanziari e fiscali
imposti a uno sport pluricondonato, scandalosamente moroso nei confronti
del fisco, con società bancarottiere riesumate e rimesse in carreggiata manco
fossero patrimonio dell´umanità come i Sassi di Matera. E ovunque risuona,
come giustificazione di blocchi stradali e lanci di petardi, cassonetti in
fiamme e indignazioni istituzionali, la commiserevole giustificazione italiota
che "gli altri hanno fatto anche di peggio", concetto che vale, in Italia,
la pretesa dell´impunità assoluta, esattamente come fu per Tangentopoli,
"rubano tutti, perché proprio io devo rimetterci?".
E non avete idea delle e-mail che fioccano, a scrivere queste cose, anche
da parte di lettori di conclamata cultura e magari civilmente impegnati,
come se il tifo soffocasse la ragione di chiunque, dell´ultrà incanaglito
come del professore democratico, resi uguali dal virus interclassista del
tifo come nel Seicento dalle pestilenze, che si portavano via popolani e
signori con quasi identica spietatezza.
Non una regola regge, non un codice etico, quando è la squadra del cuore
a finire ai ceppi. Fino a qualche anno fa, poi, c´era sempre almeno qualche
voce che si levava per avvertire che il calcio non è tutto, una squadra non
è una città, un dirigente sbadato o fanfarone o disonesto beccato a trescare
dietro le quinte non è un santo patrono da difendere a fil di spada. "Il
calcio è solo il calcio, resti al suo posto" era puro buon senso, magari
rafforzato dal senso del ridicolo e dall´idea (giusta!!) che ci sono cose
più importanti, drammi sociali ben più dolorosi. E le opinioni pubbliche
locali non erano diventate curvaiole al punto da confondere l´amarezza di
una retrocessione con "l´immagine di una città", espressione che abbiamo
sentito risuonare fin troppe volte, negli ultimi giorni, perfino nella cauta
e intelligente Genova. L´immagine di una città dev´essere diventata poca
cosa se basta uno striscione di stadio a ricoprirla tutta, e basta una valigetta
piena di contanti a farla sentire, la città intera, vittima di un complotto.
Le parole sono diventate anche loro petardi, lanciate in campo per minacciare
la sospensione del gioco. Pochissime le differenze percepibili tra città
e città, ovunque si considera sacrosanto ciò che assolve e premia, orrendo
e iniquo ciò che punisce e condanna, con gli onorevoli di destra e di sinistra
che fraternizzano comunque con le viscere esulcerate dei propri collegi elettorali,
rilasciando dichiarazioni demagogiche e sventate, manco uno che abbia il
coraggio di prendere le distanze dai cortei ululanti. Ed è questo indistinto
vittimismo, questo indiscriminato ego-innocentismo, a ben vedere, il paradosso
più patetico: il calcio, da qualche anno in qua, ci rende tutti uguali e
tutti peggiori, e il famoso e pittoresco municipalismo italiano, che dovrebbe
farci così diversi e speciali, diventa diffuso spirito nazionale, una specie
di immenso gemellaggio tra tifoserie unite dalla convinzione che la sola
legge giusta è quella che ti dà ragione, che gli altri sono raccomandati,
i dati truccati, i giudici venduti, la propria mamma vergine, le altre tutte
puttane.



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