Meditazione e Preghiera per il Tempo della Quaresima - Settimana Santa e Pasqua di Risurrezione

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Caterina63
00martedì 29 gennaio 2013 14:34

[SM=g1740733]  Apriamo un nuovo thread per vivere questo Tempo insieme al Papa e a tutta la Chiesa......
vi ricordiamo i link agli anni precedenti:

- Meditazione e Preghiera Tempo di Quaresima - Settimana Santa e Pasqua di Risurrezione 2012

Quaresima 2010 ;
La Via Crus, storia e Preghiera ;
Meditazioni per la Settimana Santa ;
Per un buon Esame di Coscienza ;

dentro a queste pagine troverete altri link....ed altro materiale che voi stessi potrete trovare nella sezione dedicata al nostro Monastero virtuale...

ricordandoci che siamo entrati nell'Anno della Fede .....

CALENDARIO CELEBRAZIONI PRESIEDUTE DAL SANTO PADRE FEBBRAIO - MARZO

Città del Vaticano, 29 gennaio 2013 (VIS). Riportiamo di seguito il calendario delle celebrazioni presiedute dal Santo Padre nei mesi di febbraio e marzo:

Febbraio

Sabato 2: Festa della Presentazione del Signore; XVII Giornata Mondiale della Vita Consacrata: alle 17:30, nella Basilica Vaticana, Santa Messa con i membri degli Istituti di Vita Consacrata e delle Società di Vita Apostolica.

Lunedì 11: alle ore 11;00, nella Sala del Concistoro, Concistoro per alcune Cause di Canonizzazione.

Mercoledì 13:

- alle 16:30, nella Basilica di Sant'Anselmo, Statio e processione penitenziale.

- alle 17:00, nella Basilica di Santa Sabina, Santa Messa, benedizione e imposizione delle Ceneri.

Domenica 17: prima Domenica di Quaresima: alle ore 18:00, nel Palazzo Apostolico, Cappella "Redemptoris Mater", inizio degli esercizi spirituali per la Curia Romana.

Sabato 23: alle ore 9:00, Cappella "Redemptoris Mater", Conclusione degli esercizi spirituali per la Curia Romana.

Marzo

24 Domenica delle Palme e della Passione del Signore: alle 9:30, in Piazza San Pietro, Benedizione delle Palme, Processione e Santa Messa.

[SM=g1740720] Settimana Santa

28 Giovedì Santo:

- alle 9:30, nella Basilica Vaticana, Santa Messa del Crisma.

- alle 17:30, nella Basilica di San Giovanni in Laterano, Inizio del Triduo Pasquale, Santa Messa nella Cena del Signore.

29: Venerdì Santo:

MEDITAZIONI VIA CRUCIS RICORDERANNO MEDIO ORIENTE

 

Città del Vaticano, 29 gennaio 2013 (VIS). Il Santo Padre, memore del recente viaggio in Libano e per invitare tutta la Chiesa a tener presente nella preghiera il Medio Oriente, i suoi problemi e le comunità cristiane in quelle terre, ha invitato, tramite il Cardinale Segretario di Stato, il Patriarca Cardinale Béchara Boutros Raï a redigere i testi per la Via Crucis del Venerdì Santo al Colosseo. I testi saranno preparati, sotto la guida del Patriarca, da due giovani libanesi e seguiranno lo schema tradizionale delle 14 Stazioni.

 

- alle 17:00, nella Basilica Vaticana, Celebrazione della Passione del Signore.

- alle 21:15, Al Colosseo: Via Crucis.

30: Sabato Santo: alle 20:30. nella Basilica Vaticana, Veglia Pasquale nella Notte Santa.

31: Domenica di Pasqua:

- alle 10:15 in Piazza San Pietro, Santa Messa del giorno.

- alle ore 12:00, dalla Loggia centrale della Basilica Vaticana, Benedizione "Urbi et Orbi".

[SM=g1740771]



Caterina63
00venerdì 1 febbraio 2013 12:37

[SM=g1740758] Messaggio del Santo Padre per la Quaresima 2013:
Credere nella carità suscita carità -
«Abbiamo conosciuto e creduto l'amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16)





MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
 
Credere nella carità suscita carità
 «Abbiamo conosciuto e creduto l'amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16)
 
Cari fratelli e sorelle,
 
la celebrazione della Quaresima, nel contesto dell’Anno della fede, ci offre una preziosa occasione per meditare sul rapporto tra fede e carità: tra il credere in Dio, nel Dio di Gesù Cristo, e l’amore, che è frutto dell’azione dello Spirito Santo e ci guida in un cammino di dedizione verso Dio e verso gli altri.
 
1. La fede come risposta all'amore di Dio.
 
Già nella mia prima Enciclica ho offerto qualche elemento per cogliere lo stretto legame tra queste due virtù teologali, la fede e la carità. Partendo dalla fondamentale affermazione dell’apostolo Giovanni: «Abbiamo conosciuto e creduto l'amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16), ricordavo che «all'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva... Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4,10), l'amore adesso non è più solo un "comandamento", ma è la risposta al dono dell'amore, col quale Dio ci viene incontro» (Deus caritas est, 1). La fede costituisce quella personale adesione – che include tutte le nostre facoltà – alla rivelazione dell'amore gratuito e «appassionato» che Dio ha per noi e che si manifesta pienamente in Gesù Cristo.
L’incontro con Dio Amore che chiama in causa non solo il cuore, ma anche l’intelletto: «Il riconoscimento del Dio vivente è una via verso l'amore, e il sì della nostra volontà alla sua unisce intelletto, volontà e sentimento nell'atto totalizzante dell'amore.
Questo però è un processo che rimane continuamente in cammino: l'amore non è mai "concluso" e completato» (ibid., 17).
Da qui deriva per tutti i cristiani e, in particolare, per gli «operatori della carità», la necessità della fede, di quell'«incontro con Dio in Cristo che susciti in loro l'amore e apra il loro animo all'altro, così che per loro l'amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per così dire dall'esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che diventa operante nell'amore» (ibid., 31a). Il cristiano è una persona conquistata dall’amore di Cristo e perciò, mosso da questo amore - «caritas Christi urget nos» (2 Cor 5,14) –, è aperto in modo profondo e concreto all'amore per il prossimo (cfr ibid., 33). Tale atteggiamento nasce anzitutto dalla coscienza di essere amati, perdonati, addirittura serviti dal Signore, che si china a lavare i piedi degli Apostoli e offre Se stesso sulla croce per attirare l’umanità nell’amore di Dio.

 «La fede ci mostra il Dio che ha dato il suo Figlio per noi e suscita così in noi la vittoriosa certezza che è proprio vero: Dio è amore! ... La fede, che prende coscienza dell'amore di Dio rivelatosi nel cuore trafitto di Gesù sulla croce, suscita a sua volta l'amore. Esso è la luce – in fondo l'unica – che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire» (ibid., 39). Tutto ciò ci fa capire come il principale atteggiamento distintivo dei cristiani sia proprio «l'amore fondato sulla fede e da essa plasmato» (ibid., 7).
 
 2. La carità come vita nella fede
 
Tutta la vita cristiana è un rispondere all'amore di Dio. La prima risposta è appunto la fede come accoglienza piena di stupore e gratitudine di un’inaudita iniziativa divina che ci precede e ci sollecita. E il «sì» della fede segna l’inizio di una luminosa storia di amicizia con il Signore, che riempie e dà senso pieno a tutta la nostra esistenza. Dio però non si accontenta che noi accogliamo il suo amore gratuito. Egli non si limita ad amarci, ma vuole attiraci a Sé, trasformarci in modo così profondo da portarci a dire con san Paolo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (cfr Gal 2,20).
 
Quando noi lasciamo spazio all’amore di Dio, siamo resi simili a Lui, partecipi della sua stessa carità. Aprirci al suo amore significa lasciare che Egli viva in noi e ci porti ad amare con Lui, in Lui e come Lui; solo allora la nostra fede diventa veramente «operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6) ed Egli prende dimora in noi (cfr 1 Gv 4,12).
 La fede è conoscere la verità e aderirvi (cfr 1 Tm 2,4); la carità è «camminare» nella verità (cfr Ef 4,15).
Con la fede si entra nell'amicizia con il Signore; con la carità si vive e si coltiva questa amicizia (cfr Gv 15,14s). La fede ci fa accogliere il comandamento del Signore e Maestro; la carità ci dona la beatitudine di metterlo in pratica (cfr Gv 13,13-17). Nella fede siamo generati come figli di Dio (cfr Gv 1,12s); la carità ci fa perseverare concretamente nella figliolanza divina portando il frutto dello Spirito Santo (cfr Gal 5,22). La fede ci fa riconoscere i doni che il Dio buono e generoso ci affida; la carità li fa fruttificare (cfr Mt 25,14-30).

 
3. L'indissolubile intreccio tra fede e carità
 
Alla luce di quanto detto, risulta chiaro che non possiamo mai separare o, addirittura, opporre fede e carità. Queste due virtù teologali sono intimamente unite ed è fuorviante vedere tra di esse un contrasto o una «dialettica». Da un lato, infatti, è limitante l'atteggiamento di chi mette in modo così forte l'accento sulla priorità e la decisività della fede da sottovalutare e quasi disprezzare le concrete opere della carità e ridurre questa a generico umanitarismo.
[SM=g1740733] Dall’altro, però, è altrettanto limitante sostenere un’esagerata supremazia della carità e della sua operosità, pensando che le opere sostituiscano la fede. Per una sana vita spirituale è necessario rifuggire sia dal fideismo che dall'attivismo moralista.


 L’esistenza cristiana consiste in un continuo salire il monte dell’incontro con Dio per poi ridiscendere, portando l'amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con lo stesso amore di Dio. Nella Sacra Scrittura vediamo come lo zelo degli Apostoli per l’annuncio del Vangelo che suscita la fede è strettamente legato alla premura caritatevole riguardo al servizio verso i poveri (cfr At 6,1-4). Nella Chiesa, contemplazione e azione, simboleggiate in certo qual modo dalle figure evangeliche delle sorelle Maria e Marta, devono coesistere e integrarsi (cfr Lc 10,38-42). La priorità spetta sempre al rapporto con Dio e la vera condivisione evangelica deve radicarsi nella fede (cfr Catechesi all’Udienza generale del 25 aprile 2012).
Talvolta si tende, infatti, a circoscrivere il termine «carità» alla solidarietà o al semplice aiuto umanitario. E’ importante, invece, ricordare che massima opera di carità è proprio l’evangelizzazione, ossia il «servizio della Parola». [SM=g1740721]
Non v'è azione più benefica, e quindi caritatevole, verso il prossimo che spezzare il pane della Parola di Dio, renderlo partecipe della Buona Notizia del Vangelo, introdurlo nel rapporto con Dio: l'evangelizzazione è la più alta e integrale promozione della persona umana. Come scrive il Servo di Dio Papa Paolo VI nell'Enciclica Populorum progressio, è l'annuncio di Cristo il primo e principale fattore di sviluppo (cfr n. 16). E’ la verità originaria dell’amore di Dio per noi, vissuta e annunciata, che apre la nostra esistenza ad accogliere questo amore e rende possibile lo sviluppo integrale dell’umanità e di ogni uomo (cfr Enc. Caritas in veritate, 8).

 In sostanza, tutto parte dall'Amore e tende all'Amore. L'amore gratuito di Dio ci è reso noto mediante l'annuncio del Vangelo. Se lo accogliamo con fede, riceviamo quel primo ed indispensabile contatto col divino capace di farci «innamorare dell'Amore», per poi dimorare e crescere in questo Amore e comunicarlo con gioia agli altri.
 A proposito del rapporto tra fede e opere di carità, un’espressione della Lettera di san Paolo agli Efesini riassume forse nel modo migliore la loro correlazione: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (2, 8-10).
Si percepisce qui che tutta l'iniziativa salvifica viene da Dio, dalla sua Grazia, dal suo perdono accolto nella fede; ma questa iniziativa, lungi dal limitare la nostra libertà e la nostra responsabilità, piuttosto le rende autentiche e le orienta verso le opere della carità. Queste non sono frutto principalmente dello sforzo umano, da cui trarre vanto, ma nascono dalla stessa fede, sgorgano dalla Grazia che Dio offre in abbondanza. Una fede senza opere è come un albero senza frutti: queste due virtù si implicano reciprocamente. La Quaresima ci invita proprio, con le tradizionali indicazioni per la vita cristiana, ad alimentare la fede attraverso un ascolto più attento e prolungato della Parola di Dio e la partecipazione ai Sacramenti, e, nello stesso tempo, a crescere nella carità, nell’amore verso Dio e verso il prossimo, anche attraverso le indicazioni concrete del digiuno, della penitenza e dell’elemosina.

 
4. Priorità della fede, primato della carità
 
Come ogni dono di Dio, fede e carità riconducono all'azione dell'unico e medesimo Spirito Santo (cfr 1 Cor 13), quello Spirito che in noi grida «Abbà! Padre» (Gal 4,6), e che ci fa dire: «Gesù è il Signore!» (1 Cor 12,3) e «Maranatha!» (1 Cor 16,22; Ap 22,20).
 La fede, dono e risposta, ci fa conoscere la verità di Cristo come Amore incarnato e crocifisso, piena e perfetta adesione alla volontà del Padre e infinita misericordia divina verso il prossimo; la fede radica nel cuore e nella mente la ferma convinzione che proprio questo Amore è l'unica realtà vittoriosa sul male e sulla morte. La fede ci invita a guardare al futuro con la virtù della speranza, nell’attesa fiduciosa che la vittoria dell'amore di Cristo giunga alla sua pienezza. Da parte sua, la carità ci fa entrare nell’amore di Dio manifestato in Cristo, ci fa aderire in modo personale ed esistenziale al donarsi totale e senza riserve di Gesù al Padre e ai fratelli. Infondendo in noi la carità, lo Spirito Santo ci rende partecipi della dedizione propria di Gesù: filiale verso Dio e fraterna verso ogni uomo (cfr Rm 5,5).

[SM=g1740722]  Il rapporto che esiste tra queste due virtù è analogo a quello tra due Sacramenti fondamentali della Chiesa: il Battesimo e l'Eucaristia.
Il Battesimo (sacramentum fidei) precede l'Eucaristia (sacramentum caritatis), ma è orientato ad essa, che costituisce la pienezza del cammino cristiano. In modo analogo, la fede precede la carità, ma si rivela genuina solo se è coronata da essa. Tutto parte dall'umile accoglienza della fede («il sapersi amati da Dio»), ma deve giungere alla verità della carità («il saper amare Dio e il prossimo»), che rimane per sempre, come compimento di tutte le virtù (cfr 1 Cor 13,13).

 
Carissimi fratelli e sorelle, in questo tempo di Quaresima, in cui ci prepariamo a celebrare l’evento della Croce e della Risurrezione, nel quale l’Amore di Dio ha redento il mondo e illuminato la storia, auguro a tutti voi di vivere questo tempo prezioso ravvivando la fede in Gesù Cristo, per entrare nel suo stesso circuito di amore verso il Padre e verso ogni fratello e sorella che incontriamo nella nostra vita. Per questo elevo la mia preghiera a Dio, mentre invoco su ciascuno e su ogni comunità la Benedizione del Signore!
 
Dal Vaticano, 15 ottobre 2012
 
 BENEDICTUS PP. XVI

[SM=g1740717] [SM=g1740720] [SM=g1740750] [SM=g1740752]




Caterina63
00sabato 2 febbraio 2013 11:30
Testimoni e annunciatori della fede

La celebrazione della Presentazione di Gesù al tempio ci orienta a Cristo, vera luce di tutte
le genti, principio e fondamento della fede e della vita cristiana. Tale orientamento è sostenuto
anche dall’Anno della fede che, come ci dice Benedetto XVI, «è un invito ad un’autentica e
rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo» (Motu proprio Porta Fidei, n. 6). In
Cristo, ci riscopriamo amati da Dio, già consacrati a Lui mediante il battesimo, chiamati all’offerta
di noi stessi nell’amore, sostenuti dalla grazia dello Spirito. In Lui ritroviamo ogni giorno il senso
della nostra vocazione e la gioia di essere discepoli e testimoni. Ora, se la celebrazione della
Presentazione di Gesù parla a tutti, essa parla in modo del tutto particolare a coloro che sono
chiamati a una speciale consacrazione, nelle diverse forme ed espressioni, siano essi dediti
principalmente alla contemplazione o all’apostolato, alla vita comunitaria o eremitica, siano essi
appartenenti a Ordini o Istituti religiosi, Istituti secolari o Società di vita apostolica, a comunità
antiche o nuove. È a loro – a voi, carissime consacrate e consacrati – che si rivolge particolarmente
questo nostro messaggio, nella 17ª Giornata mondiale della vita consacrata; ma esso vuole
raggiungere anche tutti i cristiani, nel desiderio di promuovere sempre più, in tutti, la comprensione,
l’apprezzamento e la riconoscenza a Dio per la vita consacrata.

La Chiesa sente forte, in questo tempo, l’impegno di «una nuova evangelizzazione per
riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede» (BENEDETTO XVI,
Motu proprio Porta Fidei, n. 7); impegno che il recente Sinodo dei Vescovi su La nuova
evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana ha richiamato con forza, esortandoci alla
responsabilità di testimoniare e annunciare la fede, con coraggio, serenità e fiducia, a tutti e in
particolare alle nuove generazioni: «Ovunque infatti si sente il bisogno di ravvivare una fede che
rischia di oscurarsi in contesti culturali che ne ostacolano il radicamento personale e la presenza sociale, la chiarezza dei contenuti e i frutti coerenti» (XIII ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI, Messaggio al popolo di Dio, n. 2).

In questo contesto ecclesiale e culturale e
in questo tempo peculiare si inserisce la testimonianza dei consacrati.
Il Messaggio finale del
Sinodo interpreta tale testimonianza in rapporto al senso profondo della vita, ponendola in relazione, con felice intuizione, con la testimonianza della famiglia, come a dire: mentre la famiglia è custode della sacralità della vita nella sua origine, la vita consacrata, in quanto chiamata alla
conformazione a Cristo, è custode del senso ultimo, pieno e radicale della vita. La testimonianza dei
consacrati, come il Sinodo riconosce, ha un intrinseco significato escatologico. Voi consacrati siete
testimoni dell’«orizzonte ultraterreno del senso dell’esistenza umana», e la vostra vita, in quanto
«totalmente consacrata a lui [al Signore], nell’esercizio di povertà, castità e obbedienza, è il segno
di un mondo futuro che relativizza ogni bene di questo mondo» (XIII ASSEMBLEA GENERALE
ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI, Messaggio al popolo di Dio, n. 7).

La vostra missione apostolica dà un apporto importante e insostituibile alla nuova
evangelizzazione, in conformità ai vostri specifici carismi. Voi operate in vari modi perché gli
uomini e le donne del nostro tempo aprano la porta del loro cuore al dono della fede. Molti di voi
siete impegnati nella catechesi e nella formazione cristiana; molti operate in vari ambiti educativi (a
servizio delle famiglie, nella scuola, in centri giovanili, in centri di formazione professionale, a
favore dell’integrazione degli emigrati, in luoghi di emarginazione, ecc.); molti siete impegnati
principalmente nel servizio della carità nei confronti di chi è solo, escluso, povero, malato; molti
lavorate sul piano sociale e della cultura, con iniziative che promuovono la giustizia, la pace,
l’integrazione degli immigrati, il senso della solidarietà e della ricerca di Dio. Sapete mostrare, col
vostro impegno, come la fede abbia un significato culturale ed educativo, di promozione e di
garanzia di vera umanità. Il mondo ha bisogno della vostra testimonianza fedele e gioiosa. La
richiedono tante situazioni di smarrimento, che pure sono attraversate anche dal desiderio di cose
autentiche e vere e, ancor più, da una domanda su Dio, per quanto possa sembrare tacitata o
rimossa.

E tuttavia, prima che per ciò che fate, è per il vostro stesso essere, per la generosità e
radicalità della vostra consacrazione, che voi parlate all’uomo di oggi. Vivendo con fedeltà la vostra
vocazione tenete vivo, nella Chiesa, il senso della fedeltà al vangelo. Con la vostra vita ci ricordate
anche che la nuova evangelizzazione comincia da noi stessi e che c’è un intimo legame tra
«autoevangelizzazione e testimonianza, rinnovamento interiore e ardore apostolico, tra essere e
agire, evidenziando che il dinamismo promana sempre dal primo elemento del binomio» (GIOVANNI
PAOLO II, Esortazione apostolica Vita consecrata, n. 81). Quest’idea è stata ripresa dai Padri
Sinodali quando affermano: «Guai … a pensare che la nuova evangelizzazione non ci riguardi in
prima persona. In questi giorni – aggiungono riferendosi all’esperienza vissuta nel Sinodo – più
volte tra noi Vescovi si sono levate voci a ricordare che, per poter evangelizzare il mondo, la Chiesa
deve anzitutto porsi in ascolto della Parola. L’invito ad evangelizzare si traduce in un appello alla
conversione» (XIII ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI, Messaggio al
popolo di Dio, n. 5).

Vi incoraggiamo dunque a proseguire il vostro cammino con gioia. Siete tutti impegnati,
personalmente, comunitariamente e come Istituti, in sintonia con quanto la Chiesa intera sta
vivendo, in percorsi di rinnovamento per essere sempre di più all’altezza della chiamata di Dio e
delle sfide del nostro tempo, nella fedeltà al carisma che il Signore vi ha donato. Siate sempre più
veri discepoli di Cristo; alimentate la consapevolezza della vostra missione. Vivete le situazioni
umane, sociali, culturali, nelle quali operate, facendovi segno dell’agire di Dio e siate sempre
presenza profetica di vera umanità anche quando ciò esige di andare controcorrente. Siate fedeli alla
vostra tradizione carismatica e allo stesso tempo siate capaci di interpretare in modo attuale il
carisma, mostrandone la fecondità. Siate testimoni e annunciatori della fede con la qualità della
vostra vita spirituale, della vostra vita comunitaria e del vostro servizio al prossimo.

La vita spirituale è docilità allo Spirito di Cristo e si nutre della Parola di Dio, che deve
essere, specialmente per voi consacrati, cibo quotidiano, da accogliere, gustare, assimilare, così da
conformarvi al «pensiero di Cristo» (1 Cor 2,16) e al sentire di Cristo (cfr Fil 2,5). È per questo che
vanno curati i tempi dell’incontro personale con Cristo, della preghiera, dell’adorazione eucaristica;
ed è per questo che l’Eucaristia dovrà essere al centro della vostra vita personale e della vostra
comunità. Anche i consigli evangelici, che voi professate, esprimeranno la vostra comunione con
Cristo e saranno segno, allo stesso tempo, di vera umanità: professando la castità, testimoniate il
vero amore che è dedizione e gratuità; vivendo nella povertà e nella comunione dei beni, aiutate
tutti a vivere con sobrietà senza perdere di vista l’essenziale; praticando l’obbedienza, siete profeti
della verità della libertà, che è disponibilità all’accoglienza della vocazione di Dio. I consigli
evangelici testimoniano così che la vita trova senso nell’affidamento a Dio e che la fede apre
l’umano ad orizzonti di senso e di verità.

La vostra testimonianza di vita comunitaria è un segno importante e da coltivare con
coraggio, umiltà e pazienza. La comunione – lo sappiamo – si nutre del rapporto con Dio, è riflesso
della comunione delle Persone divine, si costruisce nell’Eucaristia, è condizione, secondo la parola
di Gesù, «perché il mondo creda» (Gv 17,21). Essa è dono di Dio ed esige allo stesso tempo una
pratica quotidiana. Può essere facile, oggi, scoraggiarsi di fronte alle difficoltà relazionali che
sembrano così insormontabili da fuggirle, rifugiandosi in attivismi esasperati che, al di là delle
apparenze, trasmettono chiusure e unilateralità. In realtà, i segni di comunione sono ciò che più
esige il nostro tempo e diventano via privilegiata per mostrare la novità del Vangelo ed essere segno
di una Chiesa che è esperta in umanità. I contesti che viviamo sono segnati spesso da problemi
relazionali, solitudini, divisioni, lacerazioni, sul piano familiare e sociale; essi attendono presenze
amorevoli, segni di fiducia nei rapporti umani, inviti concreti alla speranza che la comunione è
possibile. Una proposta credibile del Vangelo esige una particolare cura dei processi relazionali e ha
bisogno di appoggiarsi a segni di vera comunione.

La vostra carità apostolica sia animata da vero spirito di servizio dal desiderio di suscitare la
fede. Il vostro apostolato ha una sua specificità nella missione della Chiesa: sa partire dalla persona,
dal malato, dal povero, dal più debole, tante volte dal più lontano dall’esperienza ecclesiale. Siete
chiamati a essere segno dell’amore e della grazia di Dio sin dal primo contatto con le persone che
incontrate. Siete chiamati – soprattutto coloro che operano coi giovani e nell’educazione – a
integrare profondamente e dinamicamente la preoccupazione evangelizzatrice e la preoccupazione
educativa. Il servizio all’uomo ha sostegno e garanzia nella fedeltà a Dio e nel tener sempre vivo lo
sguardo e il cuore sul Regno di Dio.

Lo Spirito di Dio sostenga la vostra testimonianza di fede e il vostro annuncio, rendendovi
sempre più credibili e gioiosi. Susciti nel cuore di tanti giovani il desiderio di seguire Cristo con
generosità e radicalità, intraprendendo il cammino di speciale consacrazione. Egli renda tutti noi dei
veri credenti, sempre più sensibili e responsabili nella testimonianza e nell’annuncio. Ci sostenga
nella comunione ecclesiale, ci faccia crescere in unità, nel riconoscimento dei diversi carismi e nella
fedeltà a Dio. Maria e Giuseppe, che presentarono al tempio Gesù, nella disponibilità piena ai
disegni di Dio, presentino al Signore anche noi, perché cresca nella nostra vita la fede e la capacità
di trasmetterla.

Roma, 13 gennaio 2013
Festa del Battesimo del Signore
LA COMMISSIONE EPISCOPALE
PER IL CLERO E LA VITA CONSACRATA


Caterina63
00sabato 2 febbraio 2013 14:32
[SM=g1740720] Invitiamo TUTTI a vedere questo breve filmato.... la giaculatoria che si sente e si legge proviene dall'insegnamento dell'Angelo ai tre Pastorelli durante le apparizioni di Fatima....
meditiamo e vi supplichiamo di appoggiare la riforma di Papa Benedetto XVI invitanto i parroci a rimettere gli inginocchiatoi per la comunione, lasciando LIBERA la gente se usarlo o meno....

e Voi Sacerdoti.... pensate bene a quello che fate, a cosa imponete, alle profanazioni che accadono a causa della vostra leggerezza...

www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=PFNeXzBbEeE



[SM=g1740720]

[SM=g1740750] [SM=g1740752]
Caterina63
00sabato 2 febbraio 2013 19:29

Il Papa alle Consacrate ed ai Consacrati: Non unitevi ai profeti di sventura che proclamano la fine o il non senso della vita consacrata nella Chiesa dei nostri giorni; piuttosto rivestitevi di Gesù Cristo e indossate le armi della luce – come esorta san Paolo (cfr Rm 13,11-14) – restando svegli e vigilanti

 



OMELIA DEL SANTO PADRE - 2.2.2013


Cari fratelli e sorelle!

nel suo racconto dell’infanzia di Gesù, san Luca sottolinea come Maria e Giuseppe fossero fedeli alla Legge del Signore. Con profonda devozione compiono tutto ciò che è prescritto dopo il parto di un primogenito maschio. Si tratta di due prescrizioni molto antiche: una riguarda la madre e l’altra il bambino neonato.
Per la donna è prescritto che si astenga per quaranta giorni dalle pratiche rituali, dopo di che offra un duplice sacrificio: un agnello in olocausto e una tortora o un colombo per il peccato; ma se la donna è povera, può offrire due tortore o due colombi (cfr Lv 12,1-8). San Luca precisa che Maria e Giuseppe offrirono il sacrificio dei poveri (cfr 2,24), per evidenziare che Gesù è nato in una famiglia di gente semplice, umile ma molto credente: una famiglia appartenente a quei poveri di Israele che formano il vero popolo di Dio. Per il primogenito maschio, che secondo la Legge di Mosè è proprietà di Dio, era invece prescritto il riscatto, stabilito nell’offerta di cinque sicli, da pagare ad un sacerdote in qualunque luogo. Ciò a perenne memoria del fatto che, al tempo dell’Esodo, Dio risparmiò i primogeniti degli ebrei (cfr Es 13,11-16).

E’ importante osservare che per questi due atti – la purificazione della madre e il riscatto del figlio – non era necessario andare al Tempio. Invece Maria e Giuseppe vogliono compiere tutto a Gerusalemme, e san Luca fa vedere come l’intera scena converga verso il Tempio, e quindi si focalizzi su Gesù che vi entra.

Ed ecco che, proprio attraverso le prescrizioni della Legge, l’avvenimento principale diventa un altro, cioè la “presentazione” di Gesù al Tempio di Dio, che significa l’atto di offrire il Figlio dell’Altissimo al Padre che lo ha mandato (cfr Lc 1,32.35).
Questa narrazione dell’Evangelista trova riscontro nella parola del profeta Malachia che abbiamo ascoltato all’inizio della prima Lettura: «Così dice il Signore Dio: “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire … Egli purificherà i figli di Levi … perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia» (3,1.3).
Chiaramente qui non si parla di un bambino, e tuttavia questa parola trova compimento in Gesù, perché «subito», grazie alla fede dei suoi genitori, Egli è stato portato al Tempio; e nell’atto della sua «presentazione», o della sua «offerta» personale a Dio Padre, traspare chiaramente il tema del sacrifico e del sacerdozio, come nel passo del profeta. Il bambino Gesù, che viene subito presentato al Tempio, è quello stesso che, una volta adulto, purificherà il Tempio (cfr Gv 2,13- 22; Mc 11,15,19 e par.) e soprattutto farà di se stesso il sacrificio e il sommo sacerdote della nuova Alleanza.


Questa è anche la prospettiva della Lettera agli Ebrei, di cui è stato proclamato un passo nella seconda Lettura, così che il tema del nuovo sacerdozio viene rafforzato: un sacerdozio – quello inaugurato da Gesù – che è esistenziale: «Proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Eb 2,18). E così troviamo anche il tema della sofferenza, molto marcato nel brano evangelico, là dove Simeone pronuncia la sua profezia sul Bambino e sulla Madre: «Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,34-35). La «salvezza» che Gesù porta al suo popolo, e che incarna in se stesso, passa attraverso la croce, attraverso la morte violenta che Egli vincerà e trasformerà con l’oblazione della vita per amore. Questa oblazione è già tutta preannunciata nel gesto della presentazione al Tempio, un gesto certamente mosso dalle tradizioni dell’antica Alleanza, ma intimamente animato dalla pienezza della fede e dell’amore che corrisponde alla pienezza dei tempi, alla presenza di Dio e del suo Santo Spirito in Gesù.

Lo Spirito, in effetti, aleggia su tutta la scena della presentazione di Gesù al Tempio, in particolare sulla figura di Simeone, ma anche di Anna. E’ lo Spirito «Paraclito», che porta la «consolazione» di Israele e muove i passi e il cuore di coloro che la attendono. E’ lo Spirito che suggerisce le parole profetiche di Simeone e Anna, parole di benedizione, di lode a Dio, di fede nel suo Consacrato, di ringraziamento perché finalmente i nostri occhi possono vedere e le nostre braccia stringere «la sua salvezza» (cfr 2,30). «Luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele» (2,32): così Simeone definisce il Messia del Signore, al termine del suo canto di benedizione. Il tema della luce, che riecheggia il primo e il secondo carme del Servo del Signore, nel Deutero-Isaia (cfr Is 42,6; 49,6), è fortemente presente in questa liturgia. Essa infatti è stata aperta da una suggestiva processione, a cui hanno partecipato i Superiori e le Superiore Generali degli Istituti di vita consacrata qui rappresentati, che portavano i ceri accesi. Questo segno, specifico della tradizione liturgica di questa Festa, è molto espressivo. Manifesta la bellezza e il valore della vita consacrata come riflesso della luce di Cristo; un segno che richiama l’ingresso di Maria nel Tempio: la Vergine Maria, la Consacrata per eccellenza, portava in braccio la Luce stessa, il Verbo incarnato, venuto a scacciare le tenebre dal mondo con l’amore di Dio.


Cari fratelli e sorelle consacrati, tutti voi siete stati rappresentati in quel simbolico pellegrinaggio, che nell’Anno della fede esprime ancora di più il vostro convenire nella Chiesa, per essere confermati nella fede e rinnovare l’offerta di voi stessi a Dio. A ciascuno di voi, e ai vostri Istituti, rivolgo con affetto il mio più cordiale saluto e vi ringrazio per la vostra presenza.
Nella luce di Cristo, con i molteplici carismi di vita contemplativa e apostolica, voi cooperate alla vita e alla missione della Chiesa nel mondo. In questo spirito di riconoscenza e di comunione, vorrei rivolgervi tre inviti, affinché possiate entrare pienamente in quella «porta della fede» che è sempre aperta per noi (cfr Lett. ap. Porta fidei, 1).


Vi invito in primo luogo ad alimentare una fede in grado di illuminare la vostra vocazione. Vi esorto per questo a fare memoria, come in un pellegrinaggio interiore, del «primo amore» con cui il Signore Gesù Cristo ha riscaldato il vostro cuore, non per nostalgia, ma per alimentare quella fiamma. E per questo occorre stare con Lui, nel silenzio dell’adorazione; e così risvegliare la volontà e la gioia di condividerne la vita, le scelte, l’obbedienza di fede, la beatitudine dei poveri, la radicalità dell’amore. A partire sempre nuovamente da questo incontro d’amore voi lasciate ogni cosa per stare con Lui e mettervi come Lui al servizio di Dio e dei fratelli (cfr Esort. ap. Vita consecrata, 1).

In secondo luogo vi invito a una fede che sappia riconoscere la sapienza della debolezza. Nelle gioie e nelle afflizioni del tempo presente, quando la durezza e il peso della croce si fanno sentire, non dubitate che la kenosi di Cristo è già vittoria pasquale. Proprio nel limite e nella debolezza umana siamo chiamati a vivere la conformazione a Cristo, in una tensione totalizzante che anticipa, nella misura possibile nel tempo, la perfezione escatologica (ibid., 16). Nelle società dell’efficienza e del successo, la vostra vita segnata dal «minorità» e dalla debolezza dei piccoli, dall’empatia con coloro che non hanno voce, diventa un evangelico segno di contraddizione.

Infine, vi invito a rinnovare la fede che vi fa essere pellegrini verso il futuro. Per sua natura la vita consacrata è pellegrinaggio dello spirito, alla ricerca di un Volto che talora si manifesta e talora si vela: «Faciem tuam, Domine, requiram» (Sal 26,8).

Questo sia l’anelito costante del vostro cuore, il criterio fondamentale che orienta il vostro cammino, sia nei piccoli passi quotidiani che nelle decisioni più importanti. Non unitevi ai profeti di sventura che proclamano la fine o il non senso della vita consacrata nella Chiesa dei nostri giorni; piuttosto rivestitevi di Gesù Cristo e indossate le armi della luce – come esorta san Paolo (cfr Rm 13,11-14) – restando svegli e vigilanti. San Cromazio di Aquileia scriveva: «Allontani da noi il Signore tale pericolo affinché mai ci lasciamo appesantire dal sonno dell’infedeltà; ma ci conceda la sua grazia e la sua misericordia, perché possiamo vegliare sempre nella fedeltà a Lui. Infatti la nostra fedeltà può vegliare in Cristo» (Sermone 32, 4).


Cari fratelli e sorelle, la gioia della vita consacrata passa necessariamente attraverso la partecipazione alla Croce di Cristo. Così è stato per Maria Santissima. La sua è la sofferenza del cuore che forma un tutt’uno col Cuore del Figlio di Dio, trafitto per amore. Da quella ferita sgorga la luce di Dio, e anche dalle sofferenze, dai sacrifici, dal dono di se stessi che i consacrati vivono per amore di Dio e degli altri si irradia la stessa luce, che evangelizza le genti.
In questa Festa, auguro in modo particolare a voi consacrati che la vostra vita abbia sempre il sapore della parresia evangelica, affinché in voi la Buona Novella sia vissuta, testimoniata, annunciata e risplenda come Parola di verità (cfr Lett. ap. Porta fidei, 6).

Amen.







[SM=g1740733]




HYPAPANTI : L'INCONTRO DEL CAOS E DELLA LUCE ( Joseph Ratzinger-Benedetto XVI )

 

Χαῖρε κεχαριτωμένη Θεοτόκε Παρθένε· ἐκ σοῦ γὰρ ἀνέτειλεν ὁ Ἥλιος τῆς δικαιοσύνης, Χριστὸς ὁ Θεὸς ἡμῶν, φωτίζων τοὺς ἐν σκότει. Εὐφραίνου καὶ σὺ Πρεσβύτα δίκαιε, δεξάμενος ἐν ἀγκάλαις, τὸν ἐλευθερωτὴν τῶν ψυχῶν ἡμῶν, χαριζόμενον ἡμῖν, καὶ τὴν Ἀνάστασιν.
 
Την 2α του μηνός Φεβρουαρίου, η αγία μας Εκκλησία εορτάζει την τέταρτη Δεσποτική εορτή, την Υπαπαντή του Κυρίου μας Ιησού Χριστού. Πρώτη Δεσποτική εορτή είναι τα Χριστούγεννα, δεύτερη είναι η Περιτομή, τρίτη η Βάπτιση στον Ιορδάνη ποταμό και τέταρτη η Υπαπαντή. Είναι μεγάλη η εορτή αυτή, γιατί δεν είναι μόνο Δεσποτική, αλλά και Θεομητορική εορτή. Κατά λειτουργικό κανόνα που ακολουθεί η Εκκλησία μας, την άλλη μέρα μιας Δεσποτικής εορτής, εορτάζουμε το πρόσωπο εκείνο που συνδέεται άμεσα με την εορτή αυτή. Επειδή σας μίλησα άλλοτε για την Υπαπαντή, θα σας μιλήσω σήμερα για τον άγιο Συμεών τον θεοδόχο, ο οποίος εορτάζει την άλλη μέρα της εορτής· γιατί αυτός «απάντησε» τον Κύριο, και γι’ αυτό η εορτή λέγεται Υπαπαντή.
Ο Άγιος Συμεών ο Θεοδόχος
 
L’incontro del caos e della luce ( J.Ratzinger - Benedetto XVI )
 
Nella quotidianità cittadina non ci si accorge quasi più che il 2 febbraio si celebra un’antichissima festa, comune alle Chiese dell’Oriente e dell’Occidente , che una volta aveva da noi una grande importanza nell’anno contadino: la Candelora.
E’ una festa in cui sono confluite diverse correnti storiche, cosicché risplende di vari colori.
 
L’occasione immediata è il ricordo del fatto che Maria e Giuseppe, il quarantesimo giorno dopo la sua nascita, portarono Gesù al tempio di Gerusalemme per presentare il sacrificio di purificazione prescritto.
 
Della scena descritta da Luca, la liturgia ha sottolineato soprattutto un aspetto: l’incontro tra Gesù Bambino e il vecchio Simeone; perciò nel mondo greco la festa ha ricevuto il nome di hypapanti, incontro. In questo stare insieme del bambino con l’anziano, la Chiesa vede raffigurato l’incontro tra il mondo pagano che va scomparendo e il nuovo inizio in Cristo, tra il tempo dell’Antica Alleanza che sta per finire e il tempo nuovo della Chiesa dei popoli.
Ciò che qui è espresso è più dell’eterno ciclo di morte e nascita: è più del fatto consolante che al declino di una generazione ne segue sempre un’altra, con nuove idee e speranze. Se così fosse, questo bambino non rappresenterebbe nessuna speranza per Simeone, ma solo per se stesso. Invece è di più: è speranza per tutti, perché è una speranza al di là della morte.
 
Così tocchiamo il secondo significato fondamentale che la liturgia attribuisce a questo giorno. Essa si riallaccia alle parole di Simeone, che chiama il bambino “luce per illuminare le genti”. Sulla base di queste parole si celebra il giorno liturgico come una festa delle luci. La luce calda delle candele vuol essere l’espressione evidente della luce più grande che si sprigiona in tutti i tempi dalla figura di Gesù.
A Roma la processione delle luci ha sostituito un corteo rumoroso e scatenato, il cosiddetto “amburbale”, che dalla paganità si era conservato a lungo nell’era cristiana. Il corteo pagano esprimeva elementi magici: doveva servire per purificare la città e difenderla dalle potenze cattive.
 
In ricordo di ciò, la processione cristiana si teneva dapprima in vesti nere e poi – fino alla riforma liturgica del Concilio – viola. Così nella processione compariva ancora una volta il simbolismo dell’incontro.
 
Il grido selvaggio del mondo pagano che chiede purificazione, liberazione, superamento delle potenze oscure si incontra con la “luce per illuminare le genti”, la luce tenue e umile di Gesù Cristo. Il tempo che “sta per finire”, ma che è sempre presente, di un mondo caotico, schiavizzato e schiavizzante, s’ incontra con la forza purificatrice del messaggio cristiano. Questo mi ricorda una frase del drammaturgo Eugene Ionesco, il quale, come esponente del teatro dell’assurdo, aveva levato con chiarezza il grido di un mondo assurdo e, al tempo stesso, aveva compreso sempre più che questo grido è un’invocazione a Dio. “La storia – aveva affermato, è rovina, è caos, se non è rivolta al soprannaturale”.
 
La processione delle luci, con le vesti scure, l’incontro simbolico che vi si verifica del caos e della luce, dovrebbe ricordarci questa verità e darci il coraggio, nello sforzo di migliorare il mondo, di non considerare il soprannaturale come una perdita di tempo,ma come l’unica via che può dare un senso al caos.

da "Le cose di lassù"
 
 1986-2008 - Libreria Editrice Vaticana






Caterina63
00martedì 5 febbraio 2013 23:10
[SM=g1740717] [SM=g1740720] Le Ceneri tra storia, pratica e devozione....
www.gloria.tv/?media=395799










Cari Amici, dopo aver meditato su "Le Ceneri":
it.gloria.tv/?media=395799

vi offriamo ora un video che ci aiuterà a vivere in modo fruttuoso il Digiuno come offerta, fioretto, strumento di perfezione e di donazione, ossia, fare digiuno per unirci davvero a Cristo nostro Signore.
www.gloria.tv/?media=398895


Questa Quaresima ci impegnerà in modo del tutto singolare per gli eventi che stiamo vivendo: le notizie dal mondo, le persecuzioni contro i Cristiani, le leggi contro l'Uomo, le dimissioni del Sommo Pontefice, l'elezione del nuovo Papa e non per ultimo l'Anno della Fede che pur mettendo a dura prova i nostri sentimenti, ci rammenta le parole di Gesù: perseverate sempre; pregate per non cadere in tentazione; perseverate!

Movimento Domenicano del Rosario
www.sulrosario.org
info@sulrosario.org


[SM=g1740766]






[SM=g1740722] Amici, dopo le convulse settimane vissute in seguito alla Rinuncia del Pontefice alla guida attiva della Chiesa e... dopo averlo accompagnato con filiale fiducia al suo ritiro con la promessa di vivere con lui nella Preghiera e nella coerenza di una vita cristiana; entrati così nella Sede Vacante e nell'attesa di ricevere dalla Provvidenza un nuovo Pontefice, non possiamo perdere di vista che stiamo entrando anche nel cuore della Quaresima. Vogliamo così riprendere questo Tempo concentrandoci sulla grande meditazione che Benedetto XVI ci ha lasciato come un Testamento....
www.gloria.tv/?media=408402


Movimento Domenicano del Rosario
www.sulrosario.org
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Caterina63
00mercoledì 13 febbraio 2013 13:48
Il Papa: Oggi non si può più essere cristiani come semplice conseguenza del fatto di vivere in una società che ha radici cristiane: anche chi nasce da una famiglia cristiana ed è educato religiosamente deve, ogni giorno, rinnovare la scelta di essere cristiano, cioè dare a Dio il primo posto, di fronte alle tentazioni che una cultura secolarizzata gli propone di continuo, di fronte al giudizio critico di molti contemporanei


           




L’UDIENZA GENERALE,  13.02.2013 Mercoledì delle Ceneri
 
Così all'inizio dell'Udienza:

Benedetto XVI: la Chiesa è di Cristo, il Signore ci guiderà, grazie per il vostro amore e la vostra preghiera

Grande accoglienza e affetto per Benedetto XVI oggi durante la sua penultima udienza generale del Pontificato, nell'Aula Paolo VI in Vaticano. Queste le parole rivolte all'inizio dell'udienza ai fedeli presenti:   

Cari fratelli e sorelle come sapete ho deciso … (applausi) grazie per la vostra simpatia… ho deciso di rinunciare al ministero che il Signore mi ha affidato il 19 aprile 2005. Ho fatto questo in piena libertà per il bene della Chiesa, dopo aver pregato a lungo ed aver esaminato davanti a Dio la mia coscienza, ben consapevole della gravità di tale atto, ma altrettanto consapevole di non essere più in grado di svolgere il ministero petrino con quella forza che esso richiede. Mi sostiene e mi illumina la certezza che la Chiesa è di Cristo, il Quale non le farà mai mancare la sua guida e la sua cura. Ringrazio tutti per l’amore e la preghiera con cui mi avete accompagnato… (applausi) … grazie! Ho sentito quasi fisicamente, in questi giorni per me non facili, la forza della preghiera, che l’amore della Chiesa, la vostra preghiera, mi porta. Continuate a pregare per me, per la Chiesa, per il futuro Papa. Il Signore ci guiderà. (applausi)
 







CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA
 

Le tentazioni di Gesù e la conversione per il Regno dei Cieli
 
Cari fratelli e sorelle,
 
oggi, Mercoledì delle Ceneri, iniziamo il Tempo liturgico della Quaresima, quaranta giorni che ci preparano alla celebrazione della Santa Pasqua; è un tempo di particolare impegno nel nostro cammino spirituale. Il numero quaranta ricorre varie volte nella Sacra Scrittura. In particolare, come sappiamo, esso richiama i quarant’anni in cui il popolo di Israele peregrinò nel deserto: un lungo periodo di formazione per diventare il popolo di Dio, ma anche un lungo periodo in cui la tentazione di essere infedeli all’alleanza con il Signore era sempre presente. Quaranta furono anche i giorni di cammino del profeta Elia per raggiungere il Monte di Dio, l’Horeb; come pure il periodo che Gesù passò nel deserto prima di iniziare la sua vita pubblica e dove fu tentato dal diavolo. Nell’odierna Catechesi vorrei soffermarmi proprio su questo momento della vita terrena del Signore, che leggeremo nel Vangelo di domenica prossima.

 Anzitutto il deserto, dove Gesù si ritira, è il luogo del silenzio, della povertà, dove l’uomo è privato degli appoggi materiali e si trova di fronte alle domande fondamentali dell’esistenza, è spinto ad andare all’essenziale e proprio per questo gli è più facile incontrare Dio. Ma il deserto è anche il luogo della morte, perché dove non c’è acqua non c’è neppure vita, ed è il luogo della solitudine, in cui l’uomo sente più intensa la tentazione. Gesù va nel deserto, e là subisce la tentazione di lasciare la via indicata dal Padre per seguire altre strade più facili e mondane (cfr Lc 4,1-13). Così Egli si carica delle nostre tentazioni, porta con Sè la nostra miseria, per vincere il maligno e aprirci il cammino verso Dio, il cammino della conversione.

 Riflettere sulle tentazioni a cui è sottoposto Gesù nel deserto è un invito per ciascuno di noi a rispondere ad una domanda fondamentale: che cosa conta davvero nella mia vita?

Nella prima tentazione
il diavolo propone a Gesù di cambiare una pietra in pane per spegnere la fame. Gesù ribatte che l’uomo vive anche di pane, ma non di solo pane: senza una risposta alla fame di verità, alla fame di Dio, l’uomo non si può salvare (cfr vv. 3-4).

Nella seconda tentazione, il diavolo propone a Gesù la via del potere: lo conduce in alto e gli offre il dominio del mondo; ma non è questa la strada di Dio: Gesù ha ben chiaro che non è il potere mondano che salva il mondo, ma il potere della croce, dell’umiltà, dell’amore (cfr vv. 5-8).

Nella terza tentazione, il diavolo propone a Gesù di gettarsi dal pinnacolo del Tempio di Gerusalemme e farsi salvare da Dio mediante i suoi angeli, di compiere cioè qualcosa di sensazionale per mettere alla prova Dio stesso; ma la risposta è che Dio non è un oggetto a cui imporre le nostre condizioni: è il Signore di tutto (cfr vv. 9-12).

Qual è il nocciolo delle tre tentazioni che subisce Gesù? E’ la proposta di strumentalizzare Dio, di usarlo per i propri interessi, per la propria gloria e per il proprio successo.
E dunque, in sostanza, di mettere se stessi al posto di Dio, rimuovendolo dalla propria esistenza e facendolo sembrare superfluo. Ognuno dovrebbe chiedersi allora: che posto ha Dio nella mia vita? E’ Lui il Signore o sono io?

 Superare la tentazione di sottomettere Dio a sé e ai propri interessi o di metterlo in un angolo e convertirsi al giusto ordine di priorità, dare a Dio il primo posto, è un cammino che ogni cristiano deve percorrere sempre di nuovo. “Convertirsi”, un invito che ascolteremo molte volte in Quaresima, significa seguire Gesù in modo che il suo Vangelo sia guida concreta della vita; significa lasciare che Dio ci trasformi, smettere di pensare che siamo noi gli unici costruttori della nostra esistenza; significa riconoscere che siamo creature, che dipendiamo da Dio, dal suo amore, e soltanto «perdendo» la nostra vita in Lui possiamo guadagnarla.

Questo esige di operare le nostre scelte alla luce della Parola di Dio.

 Oggi non si può più essere cristiani come semplice conseguenza del fatto di vivere in una società che ha radici cristiane: anche chi nasce da una famiglia cristiana ed è educato religiosamente deve, ogni giorno, rinnovare la scelta di essere cristiano, cioè dare a Dio il primo posto, di fronte alle tentazioni che una cultura secolarizzata gli propone di continuo, di fronte al giudizio critico di molti contemporanei.
 Le prove a cui la società attuale sottopone il cristiano, infatti, sono tante, e toccano la vita personale e sociale.
Non è facile essere fedeli al matrimonio cristiano, praticare la misericordia nella vita quotidiana, lasciare spazio alla preghiera e al silenzio interiore; non è facile opporsi pubblicamente a scelte che molti considerano ovvie, quali l’aborto in caso di gravidanza indesiderata, l’eutanasia in caso di malattie gravi, o la selezione degli embrioni per prevenire malattie ereditarie. La tentazione di metter da parte la propria fede è sempre presente e la conversione diventa una risposta a Dio che deve essere confermata più volte nella vita.


 Ci sono di esempio e di stimolo le grandi conversioni come quella di san Paolo sulla via di Damasco, o di sant’Agostino, ma anche nella nostra epoca di eclissi del senso del sacro, la grazia di Dio è al lavoro e opera meraviglie nella vita di tante persone. Il Signore non si stanca di bussare alla porta dell’uomo in contesti sociali e culturali che sembrano inghiottiti dalla secolarizzazione, come è avvenuto per il russo ortodosso Pavel Florenskij. Dopo un’educazione completamente agnostica, tanto da provare vera e propria ostilità verso gli insegnamenti religiosi impartiti a scuola, lo scienziato Florenskij si trova ad esclamare: “No, non si può vivere senza Dio!”, e a cambiare completamente la sua vita, tanto da farsi monaco.
 
Penso anche alla figura di Etty Hillesum, una giovane olandese di origine ebraica che morirà ad Auschwitz. Inizialmente lontana da Dio, lo scopre guardando in profondità dentro se stessa e scrive: “Un pozzo molto profondo è dentro di me. E Dio c’è in quel pozzo. Talvolta mi riesce di raggiungerlo, più spesso pietra e sabbia lo coprono: allora Dio è sepolto. Bisogna di nuovo che lo dissotterri” (Diario, 97). Nella sua vita dispersa e inquieta, ritrova Dio proprio in mezzo alla grande tragedia del Novecento, la Shoah. Questa giovane fragile e insoddisfatta, trasfigurata dalla fede, si trasforma in una donna piena di amore e di pace interiore, capace di affermare: “Vivo costantemente in intimità con Dio”.

 
La capacità di contrapporsi alle lusinghe ideologiche del suo tempo per scegliere la ricerca della verità e aprirsi alla scoperta della fede è testimoniata da un’altra donna del nostro tempo, la statunitense Dorothy Day. Nella sua autobiografia, confessa apertamente di essere caduta nella tentazione di risolvere tutto con la politica, aderendo alla proposta marxista: “Volevo andare con i manifestanti, andare in prigione, scrivere, influenzare gli altri e lasciare il mio sogno al mondo. Quanta ambizione e quanta ricerca di me stessa c’era in tutto questo!”. Il cammino verso la fede in un ambiente così secolarizzato era particolarmente difficile, ma la Grazia agisce lo stesso, come lei stessa sottolinea: “È certo che io sentii più spesso il bisogno di andare in chiesa, a inginocchiarmi, a piegare la testa in preghiera. Un istinto cieco, si potrebbe dire, perché non ero cosciente di pregare. Ma andavo, mi inserivo nell’atmosfera di preghiera…”. Dio l’ha condotta ad una consapevole adesione alla Chiesa, in una vita dedicata ai diseredati.

 
Nella nostra epoca non sono poche le conversioni intese come il ritorno di chi, dopo un’educazione cristiana magari superficiale, si è allontanato per anni dalla fede e poi riscopre Cristo e il suo Vangelo. Nel Libro dell’Apocalisse leggiamo: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (3, 20). Il nostro uomo interiore deve prepararsi per essere visitato da Dio, e proprio per questo non deve lasciarsi invadere dalle illusioni, dalle apparenze, dalle cose materiali.

 In questo Tempo di Quaresima, nell’Anno della fede, rinnoviamo il nostro impegno nel cammino di conversione, per superare la tendenza di chiuderci in noi stessi e per fare, invece, spazio a Dio, guardando con i suoi occhi la realtà quotidiana. L’alternativa tra la chiusura nel nostro egoismo e l’apertura all’amore di Dio e degli altri, potremmo dire che corrisponde all’alternativa delle tentazioni di Gesù: alternativa, cioè, tra potere umano e amore della Croce, tra una redenzione vista nel solo benessere materiale e una redenzione come opera di Dio, cui diamo il primato nell’esistenza. Convertirsi significa non chiudersi nella ricerca del proprio successo, del proprio prestigio, della propria posizione, ma far sì che ogni giorno, nelle piccole cose, la verità, la fede in Dio e l’amore diventino la cosa più importante.
 

* * *
 
Grazie per questo dono di alcuni canti a me particolarmente cari. Grazie. E rivolgo un cordiale saluto a tutti i pellegrini di lingua italiana, in particolare, alle Ancelle del Sacro Cuore di Gesù. Saluto i rappresentanti dell’Ordine nazionale dei tecnologi alimentari e il gruppo dei Carabinieri dell’Umbria. Cari amici, la sosta presso le tombe degli Apostoli rinsaldi la vostra adesione a Cristo e faccia crescere la carità nelle vostre famiglie e nelle vostre comunità.
 
Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. Domani celebreremo la festa dei Santi Cirillo e Metodio, apostoli e primi difensori della fede tra i popoli degli Slavi. La loro testimonianza vi aiuti ad essere anche voi apostoli del Vangelo, fermento di autentico rinnovamento nella vita personale, familiare e sociale.
 
Grazie a tutti voi.





Caterina63
00mercoledì 13 febbraio 2013 19:07
L'ultima monumentale omelia del Papa, possiamo dire il suo testamento nella Liturgia: LA CONVERSIONE:

Questa preghiera ci fa riflettere sull’importanza della testimonianza di fede e di vita cristiana di ciascuno di noi e delle nostre comunità per manifestare il volto della Chiesa e come questo volto venga, a volte, deturpato. Penso in particolare alle colpe contro l’unità della Chiesa, alle divisioni nel corpo ecclesiale. Vivere la Quaresima in una più intensa ed evidente comunione ecclesiale, superando individualismi e rivalità, è un segno umile e prezioso per coloro che sono lontani dalla fede o indifferenti.




OMELIA DEL SANTO PADRE
 

Venerati Fratelli,
 cari fratelli e sorelle!
 
Oggi, Mercoledì delle Ceneri, iniziamo un nuovo cammino quaresimale, un cammino che si snoda per quaranta giorni e ci conduce alla gioia della Pasqua del Signore, alla vittoria della Vita sulla morte. Seguendo l’antichissima tradizione romana delle quaresimali, ci siamo radunati per la Celebrazione dell’Eucaristia. Tale tradizione prevede che la prima statio abbia luogo nella Basilica di Santa Sabina sul colle Aventino. Le circostanze hanno suggerito di radunarsi nella Basilica Vaticana.

 Stasera siamo numerosi intorno alla Tomba dell’Apostolo Pietro anche a chiedere la sua intercessione per il cammino della Chiesa in questo particolare momento, rinnovando la nostra fede nel Pastore Supremo, Cristo Signore.

 Per me è un’occasione propizia per ringraziare tutti, specialmente i fedeli della Diocesi di Roma, mentre mi accingo a concludere il ministero petrino, e per chiedere un particolare ricordo nella preghiera.

Le Letture che sono state proclamate ci offrono spunti che, con la grazia di Dio, siamo chiamati a far diventare atteggiamenti e comportamenti concreti in questa Quaresima.


 La Chiesa ci ripropone, anzitutto, il forte richiamo che il profeta Gioele rivolge al popolo di Israele: «Così dice il Signore: ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti» (2,12). Va sottolineata l’espressione «con tutto il cuore», che significa dal centro dei nostri pensieri e sentimenti, dalle radici delle nostre decisioni, scelte e azioni, con un gesto di totale e radicale libertà.
Ma è possibile questo ritorno a Dio? Sì, perché c’è una forza che non risiede nel nostro cuore, ma che si sprigiona dal cuore stesso di Dio. È la forza della sua misericordia.
Dice ancora il profeta: «Ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male» (v.13). Il ritorno al Signore è possibile come "grazia", perché è opera di Dio e frutto della fede che noi riponiamo nella sua misericordia. Ma questo ritornare a Dio diventa realtà concreta nella nostra vita solo quando la grazia del Signore penetra nell’intimo e lo scuote donandoci la forza di «lacerare il cuore». È ancora il profeta a far risuonare da parte di Dio queste parole: «Laceratevi il cuore e non le vesti» (v.13).

In effetti, anche ai nostri giorni, molti sono pronti a “stracciarsi le vesti” di fronte a scandali e ingiustizie – naturalmente commessi da altri –, ma pochi sembrano disponibili ad agire sul proprio “cuore”, sulla propria coscienza e sulle proprie intenzioni, lasciando che il Signore trasformi, rinnovi e converta.

Quel «ritornate a me con tutto il cuore», poi, è un richiamo che coinvolge non solo il singolo, ma la comunità. Abbiamo ascoltato sempre nella prima Lettura: «Suonate il corno in Sion, proclamate un solenne digiuno, convocate una riunione sacra. Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la sposa dal suo talamo» (vv.15-16). La dimensione comunitaria è un elemento essenziale nella fede e nella vita cristiana. Cristo è venuto «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (cfr 11,52). Il “Noi” della Chiesa è la comunità in cui Gesù ci riunisce insieme (cfr 12,32): la fede è necessariamente ecclesiale.

E questo è importante ricordarlo e viverlo in questo Tempo della Quaresima: ognuno sia consapevole che il cammino penitenziale non lo affronta da solo, ma insieme con tanti fratelli e sorelle, nella Chiesa. Il profeta, infine, si sofferma sulla preghiera dei sacerdoti, i quali, con le lacrime agli occhi, si rivolgono a Dio dicendo: «Non esporre la tua eredità al ludibrio e alla derisione delle genti. Perché si dovrebbe dire fra i popoli: “Dov’è il loro Dio?”» (v.17).


 Questa preghiera ci fa riflettere sull’importanza della testimonianza di fede e di vita cristiana di ciascuno di noi e delle nostre comunità per manifestare il volto della Chiesa e come questo volto venga, a volte, deturpato. Penso in particolare alle colpe contro l’unità della Chiesa, alle divisioni nel corpo ecclesiale. Vivere la Quaresima in una più intensa ed evidente comunione ecclesiale, superando individualismi e rivalità, è un segno umile e prezioso per coloro che sono lontani dalla fede o indifferenti.

 «Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» ( 6,2). Le parole dell’apostolo Paolo ai cristiani di Corinto risuonano anche per noi con un’urgenza che non ammette assenze o inerzie. Il termine “ora” ripetuto più volte dice che questo momento non può essere lasciato sfuggire, esso viene offerto a noi come un’occasione unica e irripetibile. E lo sguardo dell’Apostolo si concentra sulla condivisione con cui Cristo ha voluto caratterizzare la sua esistenza, assumendo tutto l’umano fino a farsi carico dello stesso peccato degli uomini. La frase di san Paolo è molto forte: Dio «lo fece peccato in nostro favore». Gesù, l’innocente, il Santo, «Colui che non aveva conosciuto peccato» ( 5,21), si fa carico del peso del peccato condividendone con l’umanità l’esito della morte, e della morte di croce. La riconciliazione che ci viene offerta ha avuto un prezzo altissimo, quello della croce innalzata sul Golgota, su cui è stato appeso il Figlio di Dio fatto uomo. In questa immersione di Dio nella sofferenza umana e nell’abisso del male sta la radice della nostra giustificazione.

 Il «ritornare a Dio con tutto il cuore» nel nostro cammino quaresimale passa attraverso la Croce, il seguire Cristo sulla strada che conduce al Calvario, al dono totale di sé. E’ un cammino in cui imparare ogni giorno ad uscire sempre più dal nostro egoismo e dalle nostre chiusure, per fare spazio a Dio che apre e trasforma il cuore. E san Paolo ricorda come l’annuncio della Croce risuoni a noi grazie alla predicazione della Parola, di cui l’Apostolo stesso è ambasciatore; un richiamo per noi affinché questo cammino quaresimale sia caratterizzato da un ascolto più attento e assiduo della Parola di Dio, luce che illumina i nostri passi.

 Nella pagina del Vangelo di Matteo, che appartiene al cosiddetto Discorso della montagna, Gesù fa riferimento a tre pratiche fondamentali previste dalla Legge mosaica: l’elemosina, la preghiera e il digiuno; sono anche indicazioni tradizionali nel cammino quaresimale per rispondere all’invito di «ritornare a Dio con tutto il cuore». Ma Gesù sottolinea come sia la qualità e la verità del rapporto con Dio ciò che qualifica l’autenticità di ogni gesto religioso. Per questo Egli denuncia l’ipocrisia religiosa, il comportamento che vuole apparire, gli atteggiamenti che cercano l’applauso e l’approvazione. Il vero discepolo non serve se stesso o il “pubblico”, ma il suo Signore, nella semplicità e nella generosità: «E il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (6,4.6.18).

 La nostra testimonianza allora sarà sempre più incisiva quanto meno cercheremo la nostra gloria e saremo consapevoli che la ricompensa del giusto è Dio stesso, l’essere uniti a Lui, quaggiù, nel cammino della fede, e, al termine della vita, nella pace e nella luce dell’incontro faccia a faccia con Lui per sempre (cfr 1 Cor 13,12).

Cari fratelli e sorelle, iniziamo fiduciosi e gioiosi l’itinerario quaresimale. Risuoni forte in noi l’invito alla conversione, a «ritornare a Dio con tutto il cuore», accogliendo la sua grazia che ci fa uomini nuovi, con quella sorprendente novità che è partecipazione alla vita stessa di Gesù. Nessuno di noi, dunque, sia sordo a questo appello, che ci viene rivolto anche nell’austero rito, così semplice e insieme così suggestivo, dell’imposizione delle ceneri, che tra poco compiremo. Ci accompagni in questo tempo la Vergine Maria, Madre della Chiesa e modello di ogni autentico discepolo del Signore.

Amen!





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Caterina63
00giovedì 14 febbraio 2013 19:54
[SM=g1740717] [SM=g1740720] Costituzione "Non ambigimus" di Benedetto XIV (30 maggio 1741):

L'osservanza della Quaresima è il vincolo della nostra milizia; con quella ci distinguiamo dai nemici della Croce di Gesù Cristo; con quella allontaniamo i flagelli dell'ira divina; con quella, protetti dal soccorso celeste durante il giorno, ci fortifichiamo contro i prìncipi delle tenebre. Se ci abbandoniamo a tale rilassamento, è tutto a detrimento della gloria di Dio, a disonore della religione cattolica, a pericolo per le anime cristiane; né si deve dubitare che tale negligenza non possa divenire sorgente di sventure per i popoli, di rovine nei pubblici affari e di disgrazie nelle cose private (…).



La disciplina del digiuno e dell’astinenza

La disciplina del digiuno e dell'astinenza, secondo i Canoni 1250-1254 del Diritto Canonico piano-benedettino del 1917, modificati dal Decreto dalla S. Congregazione dei Riti del 16 settembre 1955 e dalla S. Congregazione Concilio del 25 luglio 1957, è la seguente:


- LA LEGGE DEL DIGIUNO obbliga tutti i fedeli che hanno compiuto i 21 anni e non hanno ancora iniziato il 60° anno.

- LA LEGGE DELL'ASTINENZA dalla carne obbliga tutti i fedeli a partire dai 7 anni compiuti.

IL DIGIUNO consiste nel fare un solo pasto al giorno e due piccole refezioni nel corso della giornata (i moralisti quantificano in 60 grammi al mattino e 250 grammi alla sera).

L'ASTINENZA vieta l'uso della carne, di estratto o brodo di carne, ma non quello delle uova, dei latticini e di qualsiasi condimento di grasso animale.

GIORNI DI ASTINENZA DALLA CARNI:
- tutti i Venerdì dell'anno (tranne se vi cade una festa di precetto).

GIORNI DI ASTINENZA E DI DIGIUNO:
- Mercoledì delle Ceneri;
- ogni Venerdì e Sabato di Quaresima;
- il Mercoledì, il Venerdì e il Sabato delle Quattro Tempora;
- le Vigilie di Natale (24 Dicembre), di Pentecoste, dell'Immacolata (7 dicembre),
d'Ognissanti (31 Ottobre).

GIORNI DI SOLO DIGIUNO SENZA ASTINENZA:
- tutti gli altri giorni feriali di Quaresima (le Domeniche non c'è digiuno).

POSSONO NON PRATICARE L'ASTINENZA:
- i poveri che ricevono carne in elemosina e non hanno altro da mangiare;
- gli infermi, i convalescenti, i deboli di stomaco, le donne che allattano, le donne incinte se deboli;
- gli operai che fanno lavori più pesanti quotidianamente;
- mogli, figli, servi, tutti coloro che esercitano in servizio essendovi costretti, e che non possono avere altro cibo sufficientemente nutriente.

POSSONO NON PRATICARE IL DIGIUNO:
- coloro che digiunerebbero con grave incomodo: ammalati, convalescenti, deboli di nervi, donne che allattano o incinte;
- poveri che hanno già poco cibo a disposizione;
- coloro che esercitano un lavoro che è moralmente e ordinariamente incompatibile con il digiuno (es: lavori pesanti);
- coloro che fanno un lavoro intellettuale molto faticoso (es. studenti sotto esami);
- chi deve fare un lungo e faticoso viaggio;
- per un maggiore bene o per un'opera di pietà più grande se questa è moralmente incompatibile con il digiuno (es: assistenza ai malati).


[SM=g1740733]

L’Arte di Utilizzare le Proprie Colpe

Immacolata Rifugio dei Peccatori-don curzio nitoglia - davoli

*

L’ARTE DI UTILIZZARE LE PROPRIE COLPE

“Detestiamo il peccato in quanto offesa fatta a Dio, e non in quanto attentato alla stima esagerata che abbiamo della nostra persona. È necessario perciò odiare le nostre colpe in quanto offendono Dio, ma accettarle con serenità in quanto ci fan toccare con mano il nostro nulla”.

Introduzione

È stato ristampato un prezioso libricino, di padre Joséph Tissot, L’arte di trarre profitto dai nostri peccati, ed. Grafite, Napoli  1999, che spiega come utilizzare le nostre miserie, per arrivare alla santità, alla luce dell’insegnamento di S. Francesco di Sales. Ne proponiamo qui in breve i passaggi più importanti.

Non turbarsi davanti alle proprie colpe

Il peccato ha una malizia infinita, poiché offende una Persona infinita: Dio. Esso è l’unico vero male, che solo può mandarci all’inferno. Perciò dobbiamo cercare, con l’aiuto della grazia divina, di non commetterlo, ma la vita spirituale è lunga, lenta e non priva di aspre lotte e certe volte anche di cadute, anche per i santi (per esempio David, S. Pietro, S. Maria Maddalena).

 Dopo il peccato, il male più grave è il turbamento dell’anima che ci impedisce di avere un rapporto di amore filiale o di amicizia con Dio, che ci ha creati per la felicità perfetta del Paradiso, e vuole che viviamo serenamente, in pace e con grande fiducia, il nostro cammino spirituale, malgrado gli ostacoli o le cadute.

 Dio non vuole vederci turbati, in continua pena, affannati per i nostri difetti; tutto ciò ci renderebbe insopportabile la vita spirituale, ci porterebbe allo scoraggiamento e a ‘gettare la spugna’, mentre la vita spirituale deve darci la tranquillità d’animo, anche in mezzo alle tempeste.

 Lasciarsi inquietare dalle proprie cadute rappresenta perciò l’inganno più astuto che il diavolo, il mondo o il nostro orgoglio e

amor proprio, ci possano tendere. S. Francesco di Sales diceva: «Turbarsi, scoraggiarsi, quando si è caduti in peccato, significa non conoscere se stessi».

 Questo non significa che dobbiamo restare indifferenti davanti alle nostre colpe; no, anzi dobbiamo detestarle in quanto offesa a Dio. S. Paolo nella sua epistola ai Romani scrive: “Cosa diremo? Continuiamo a restare nel peccato perché abbondi la grazia? È assurdo! O forse dobbiamo commettere peccati perché non siamo più sotto l’antica legge, ma sotto la grazia di Cristo? Non sia mai!”.

 Spesso dopo una caduta ci si rattrista non tanto per l’offesa recata a Dio, quanto perché vediamo che siamo ancora deboli, fragili e questo ci infastidisce e ci umilia. Di qui nasce lo scoraggiamento: invece di accettare l’umiliazione per rialzarci più ferventi, umili e prudenti, rischiamo o di vivere negativamente la vita spirituale e di pensare più alla nostra fragilità che all’offesa recata a Dio, oppure di negare che il peccato sia un male, giustificandoci: “l’uomo non ha il libero arbitrio, quindi non sono io che pecco ma Dio pecca in me” (Lutero).

 Altre volte l’uomo cerca di far passare la melma del peccato per oro zecchino: “Mediante la trasgressione dei comandamenti il superuomo si auto-divinizza, egli è al di là del bene e del male, ciò che per il volgo è peccato per l’iniziato è auto-divinizzazione” (Nietzsche, Evola ed esoteristi vari).

 Il vero cristiano, invece, imita il buon contadino, che quando vede le erbacce nel suo orto non si meraviglia, non si deprime ma armato di zappa le sradica. Perciò due cose sono necessarie a chi vuole percorrere l’itinerario della perfezione spirituale: 1°) rassegnarsi a vedere crescere cattive erbe nel nostro giardino; 2°) armarsi di coraggio sereno e fiducioso e sradicarle con buona lena.

 “Scrupoli e malinconia fuori di casa mia!” diceva don Bosco. Infatti non vi è cosatanto funesta per il progresso spirituale chel’orgogliosa sorpresa nel constatare i proprilimiti e le proprie deficienze, che porta alloscoraggiamento triste e malinconico e all’assuefazioneletale.

 Questa attitudine sbagliata si manifesta pressappoco così: dopo una caduta, appare il torbido; anche se ci si confessa si continua ad osservarsi, ad esaminarsi ansiosamente, a voler cancellare più perfettamente e profondamente di quanto abbia fatto la grazia divina, le cicatrici e le reliquie del peccato. Si diventa impazienti e indispettiti con se stessi, in breve si perde la pace che è un frutto dello Spirito Santo; eppure “non v’è nulla che conservi tanto i difetti, come l’inquietudine e la fretta di toglierli” (S. Franceso di Sales).

 Certo bisogna detestare le proprie colpe, ma con un pentimento tranquillo, solido, coraggioso, calmo, e mai inquieto, turbato, indispettito e scoraggiato.

 La falsa umiltà

 La causa del turbamento dell’anima è da ricercarsi nell’amor proprio ferito, e nella ricerca di se stessi anche nella vita spirituale

(orgoglio spirituale). Infatti ci turbiamo perché non siamo ancora perfetti. Quindi non detestiamo il peccato in quanto offesa fatta a Dio, ma in quanto attentato alla stima esagerata che abbiamo della nostra persona.

 La nostra salvezza ha due nemici principali: 1°) la presunzione, quando si è innocenti; 2°) la disperazione, dopo la caduta. Bisogna dunque che ci convinciamo che ciò che può perderci, più che il peccato confessato è l’abbattimento, la sfiducia. Se riusciremo a non cadere in queste sabbie mobili, andremo di gran carriera verso la nostra santificazione.

 Se osserviamo coloro che apprendono a sciare, vediamo che lo fanno grazie a innumerevoli capitomboli, ma non per questo si scoraggiano, anzi provando e riprovando, tra uno scivolone e l’altro, cominciano pian piano a sciare su una lieve pendio e solo dopo aver “toccato il suolo” parecchie volte, potranno lanciarsi a tutta velocità su una pista ripida.

 È necessario perciò odiare le nostre colpe in quanto offendono Dio, ma accettarle con serenità in quanto ci fan toccare con mano il nostro nulla.

 Attenzione alle cattive abitudini

 “Alcune cadute gravi, se non sono accompagnate da acquiescenza nel male, ossia se non diventano abitudini o vizi, oltre a non lasciare traccia di sé, non impediscono, dopo il perdono, che l’anima possa recuperare il posto che aveva raggiunto prima” (S. Francesco di Sales).

 Ma anche coloro che fossero vissuti a lungo nel male e lontani da Dio non devono disperare; certo il loro stato è molto grave ma non è irreparabile (vedi S. Paolo, S. Agostino, S. Maria Maddalena …). Queste anime dovranno aumentare la loro fiducia nell’aiuto onnipotente e misericordioso di Dio, poiché “nulla è impossibile a chi sa lottare e pregare” (S. Agostino).

 Occorre quindi temere di diventar superbi a causa dell’innocenza, e sperare nell’onnipotenza ausiliatrice di Dio per uscire dalla colpa.

 Non tutti i mali vengono per nuocere

 Dio permette il male per trarne un bene sovrabbondante. Perciò se Dio permette qualche colpa (il rinnegamento di Pietro per esempio) lo fa per umiliarci, utilizzando a tal fine le nostre colpe.

 S. Bernardo osserva che il letame è una materia schifosa e rivoltante, tuttavia i contadini se ne servono per far produrre agli alberi frutti più buoni o per far crescere fiori olezzanti. Allo stesso modo, Dio si serve delle nostre colpe, per far produrre alla nostra anima i frutti delle buone opere.

 S. Agostino, commentando S. Paolo che scrive: “Tutto coopera al bene di coloro che amano Dio”, spiega: “Tutto, anche i peccati, affinché l’uomo possa rialzarsi più umile, più prudente e più fervoroso”.

 Occorre perciò evitare due scogli, quello dei quietisti, secondo i quali “la morale fa male” e quello degli angelisti o dei perfezionisti che non vogliono ammettere neanche l’ombra del minimo difetto in sé.

 Occorre che la nostra condotta riproduca ciò che la nostra bocca confessa, altrimenti saremmo dei “sepolcri imbiancati”, o “moralisti ipocriti” che predicano bene e razzolano male. quindi la morale fa bene, e “la Fede senza le Opere è morta” (S. Giacomo).

Invece il perfezionismo blocca ogni attività o sforzo ascetico per pusillanimità o paura di sbagliare.

 Le nostre colpe sono dei fari che portano alla luce le nostre miserie

 I nostri peccati si possono tramutare in un’arma potente contro il nostro principale nemico, l’orgoglio. Essi diventano così occasione (e non causa) di salvezza e santificazione. È per questo che essi vengono paragonati a dei fari che illuminano l’anima e le fanno vedere la sua miseria.

 S. Agostino dice che “Dio sopporta meglio le azioni cattive accompagnate dall’umiltà, che non le opere buone infettate dall’orgoglio”. S. Gregorio Nisseno aggiunge: “Un carro di buone opere, ma tirato dalla superbia, conduce all’inferno, mentre un carro di peccati, ma condotto dall’umiltà, arriva in Paradiso”.

 In breve la via per giungere all’umiltà sono le umiliazioni e non c’è umiliazione più grande che quella di vedere le nostre miserie e di toccarle con mano.

 La Madonna “rifugio dei peccatori” e “speranza dei disperati”

 Per quanto miserabili siamo, per quanto disperato possa essere lo stato della nostra anima, se ci rifugiamo sotto la protezione di Maria, lei ci adotterà come suoi malati, e siccome non esistono, su questa terra, malattie spirituali che siano incurabili, e Maria è onnipotente per grazia, nessuna piaga spirituale potrà resisterle, e una volta guariti Maria ci aiuterà ad ottenere la santa perseveranza.

 Preghiamo dunque la Madonna, dicendole: “Ricordatevi o piissima Vergine Maria, che non si è mai sentito dire che qualcuno che è ricorso a voi sia stato abbandonato; animato da tale confidenza, io ricorro a voi, non vogliate disprezzare le mie preghiere ma ascoltatele propizia ed esauditele. Così sia”.

d. Curzio Nitoglia

http://doncurzionitoglia.net/2013/01/01/167/

http://doncurzionitoglia.wordpress.com/2013/01/01/677/



Caterina63
00domenica 17 febbraio 2013 18:44

BENEDETTO XVI

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 17 febbraio 2013

[Video]







 

Cari fratelli e sorelle!

mercoledì scorso, con il tradizionale Rito delle Ceneri, siamo entrati nella Quaresima, tempo di conversione e di penitenza in preparazione alla Pasqua. La Chiesa, che è madre e maestra, chiama tutti i suoi membri a rinnovarsi nello spirito, a ri-orientarsi decisamente verso Dio, rinnegando l’orgoglio e l’egoismo per vivere nell’amore. In questo Anno della fede la Quaresima è un tempo favorevole per riscoprire la fede in Dio come criterio-base della nostra vita e della vita della Chiesa. Ciò comporta sempre una lotta, un combattimento spirituale, perché lo spirito del male naturalmente si oppone alla nostra santificazione e cerca di farci deviare dalla via di Dio. Per questo, nella prima domenica di Quaresima, viene proclamato ogni anno il Vangelo delle tentazioni di Gesù nel deserto.

Gesù infatti, dopo aver ricevuto l’“investitura” come Messia – “Unto” di Spirito Santo – al battesimo nel Giordano, fu condotto dallo stesso Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo. Al momento di iniziare il suo ministero pubblico, Gesù dovette smascherare e respingere le false immagini di Messia che il tentatore gli proponeva.
Ma queste tentazioni sono anche false immagini dell’uomo, che in ogni tempo insidiano la coscienza, travestendosi da proposte convenienti ed efficaci, addirittura buone.
Gli evangelisti Matteo e Luca presentano tre tentazioni di Gesù, diversificandosi in parte solo per l’ordine. Il loro nucleo centrale consiste sempre nello strumentalizzare Dio per i propri interessi, dando più importanza al successo o ai beni materiali. Il tentatore è subdolo: non spinge direttamente verso il male, ma verso un falso bene, facendo credere che le vere realtà sono il potere e ciò che soddisfa i bisogni primari. In questo modo, Dio diventa secondario, si riduce a un mezzo, in definitiva diventa irreale, non conta più, svanisce.

In ultima analisi, nelle tentazioni è in gioco la fede, perché è in gioco Dio. Nei momenti decisivi della vita, ma, a ben vedere, in ogni momento, siamo di fronte a un bivio: vogliamo seguire l’io o Dio? L’interesse individuale oppure il vero Bene, ciò che realmente è bene?

Come ci insegnano i Padri della Chiesa, le tentazioni fanno parte della “discesa” di Gesù nella nostra condizione umana, nell’abisso del peccato e delle sue conseguenze. Una “discesa” che Gesù ha percorso sino alla fine, sino alla morte di croce e agli inferi dell’estrema lontananza da Dio. In questo modo, Egli è la mano che Dio ha teso all’uomo, alla pecorella smarrita, per riportarla in salvo. Come insegna sant’Agostino, Gesù ha preso da noi le tentazioni, per donare a noi la sua vittoria (cfr Enarr. in Psalmos, 60,3: PL 36, 724).
Non abbiamo dunque paura di affrontare anche noi il combattimento contro lo spirito del male: l’importante è che lo facciamo con Lui, con Cristo, il Vincitore. E per stare con Lui rivolgiamoci alla Madre, Maria: invochiamola con fiducia filiale nell’ora della prova, e lei ci farà sentire la potente presenza del suo Figlio divino, per respingere le tentazioni con la Parola di Cristo, e così rimettere Dio al centro della nostra vita.


Dopo l'Angelus

Grazie a tutti voi!


Un caloroso saluto infine ai pellegrini di lingua italiana. Grazie a voi! Grazie di essere venuti così numerosi! Grazie! La vostra presenza è un segno dell’affetto e della vicinanza spirituale che mi state manifestando in questi giorni. Vi sono profondamente grato! Saluto in particolare l’Amministrazione di Roma Capitale, guidata dal Sindaco, e con lui saluto e ringrazio tutti gli abitanti di questa amata Città di Roma. Saluto i fedeli della diocesi di Verona, quelli di Nettuno, di Massannunziata e della parrocchia romana di Santa Maria Janua Coeli, come pure i ragazzi di Seregno e di Brescia. A tutti auguro una buona domenica e un buon cammino di Quaresima. Questa sera inizierò la settimana di Esercizi spirituali: rimaniamo uniti nella preghiera. Buona settimana per tutti voi.
Grazie!






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Caterina63
00sabato 23 febbraio 2013 12:42

Per il Cristianesimo antico la croce è soprattutto segno della speranza: uno scritto di Joseph Ratzinger sulla Pasqua


Grazie alla nostra Gemma possiamo leggere questa bella riflessione del Santo Padre. E' particolarmente significativa nel giorno in cui Benedetto XVI ha parlato del "Triduo Pasquale" nel corso dell'udienza generale.

Capitolo VI. Le feste cristiane

La Pasqua

Nel breviario romano la liturgia del triduo sacro è strutturata con una cura particolare; la Chiesa nella sua preghiera vuole per così dire trasferirci nella realtà della passione del Signore e, al di là delle parole, nel centro spirituale di ciò che è accaduto.
Se si volesse tentare di contrassegnare in poche battute la liturgia orante del sabato santo, allora bisognerebbe parlare soprattutto dell’effetto di pace profonda che traspira da essa. Cristo è penetrato nel nascondimento (Verborgenheit), ma nello stesso tempo, proprio nel cuore del buio impenetrabile egli è penetrato nella sicurezza (Geborgenheit), anzi egli è diventato la sicurezza ultima. Ormai è diventata vera la parola ardita del Salmista: e anche se mi volessi nascondere nell’inferno, anche là sei tu.
E quanto più si percorre questa liturgia, tanto più si scorgono brillare in essa, come un’aurora del mattino le prime luci della Pasqua.
Se il venerdì santo ci pone davanti agli occhi la figura sfigurata del trafitto, la liturgia del sabato santo si rifà piuttosto all’immagine della Croce cara alla Chiesa antica: alla croce circondata da raggi luminoso, segno, allo stesso modo, della morte e della risurrezione.

Il sabato santo ci rimanda così a un aspetto della pietà cristiana che forse è stato smarrito nel corso dei tempi. Quando noi nella preghiera guardiamo alla croce, vediamo spesso in essa soltanto un segno della passione storica del Signore sul Golgota. L’origine della devozione alla croce è però diversa: i cristiani pregavano rivolti a Oriente per esprimere la loro speranza che Cristo, il sole vero, sarebbe sorto sulla storia, per esprimere quindi la loro fede nel ritorno del Signore.

La Croce è in un primo tempo legata strettamente con questo orientamento della preghiera, essa viene rappresentata per così dire come un’insegna che il re inalbererà nella sua venuta; nell’immagine della Croce la punta avanzata del corteo è già arrivata in mezzo a coloro che pregano. Per il cristianesimo antico la croce è quindi soprattutto segno della speranza. Essa non implica tanto un riferimento al Signore passato, quanto al Signore che sta per venire. Certo era impossibile sottrarsi alla necessità intrinseca che, con il passare del tempo, lo sguardo si rivolgesse anche all’evento accaduto:

contro ogni fuga nello spirituale, contro ogni misconoscimento dell’incarnazione di Dio, occorreva che fosse difesa la prodigalità costernante dell’amore di Dio che, per amore della misera creatura umana, è diventato egli stesso un uomo, e quale uomo! Occorreva difendere la santa stoltezza dell’amore di Dio che non ha scelto di pronunciare una parola di potenza, ma di percorrere la via dell’impotenza per mettere alla gogna il nostro sogno di potenza e vincerlo dall’interno.

Ma così non abbiamo dimenticato un po’ troppo la connessione tra croce e speranza, l’unità tra Oriente e la direzione della croce , tra passato e futuro esistente nel cristianesimo? l’ Lo spirito della speranza che alita sulle preghiere del sabato santo dovrebbe nuovamente penetrare tutto il nostro essere cristiani. Il cristianesimo non è soltanto una religione del passato, ma, in misura non minore, del futuro; la sua fede è nello stesso tempo speranza, giacchè Cristo non è soltanto il morto e il risorto ma anche colui che sta per venire.

O Signore, illumina le nostre anime con questo mistero della speranza perché riconosciamo la luce che è irraggiata dalla tua Croce, concedici che come cristiani procediamo protesi al futuro, incontro al giorno della tua venuta.

da "Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana", Raccolta di scritti di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI a cura di Elio Guerriero, Libreria Editrice Vaticana, 2007.



[SM=g1740758]  CONCLUSIONE DEGLI ESERCIZI SPIRITUALI DELLA CURIA ROMANA, 23.02.2013
 
Alle ore 9 di oggi, nella Cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico Vaticano, con il canto delle Lodi e la Meditazione finale, si sono conclusi gli Esercizi Spirituali alla presenza del Santo Padre Benedetto XVI.
 Le meditazioni sono state dettate quest’anno dal Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ed hanno avuto per tema: "Ars orandi, ars credendi. Il volto di Dio e il volto dell’uomo nella preghiera salmica".
 Pubblichiamo di seguito le parole che il Papa ha rivolto ai presenti a conclusione degli Esercizi Spirituali nella Cappella Redemptoris Mater:
 
PAROLE DEL SANTO PADRE
 
Cari Fratelli,
 Cari Amici!
 
Alla fine di questa settimana spiritualmente così densa, rimane solo una parola: grazie! Grazie a voi per questa comunità orante in ascolto, che mi ha accompagnato in questa settimana. Grazie, soprattutto, a Lei, Eminenza, per queste "camminate" così belle nell’universo della fede, nell’universo dei Salmi. Siamo rimasti affascinati dalla ricchezza, dalla profondità, dalla bellezza di questo universo della fede e rimaniamo grati perché la Parola di Dio ci ha parlato in nuovo modo, con nuova forza.

 "Arte di credere, arte di pregare" era il filo conduttore. Mi è venuto in mente il fatto che i teologi medievali hanno tradotto la parola "logos" non solo con "verbum", ma anche con "ars": "verbum" e "ars" sono intercambiabili. Solo nelle due insieme appare, per i teologi medievali, tutto il significato della parola "logos". Il "Logos" non è solo una ragione matematica: il "Logos" ha un cuore, il "Logos" è anche amore. La verità è bella, verità e bellezza vanno insieme: la bellezza è il sigillo della verità.

 E tuttavia Lei, partendo dai Salmi e dalla nostra esperienza di ogni giorno, ha anche fortemente sottolineato che il "molto bello" del sesto giorno – espresso dal Creatore – è permanentemente contraddetto, in questo mondo, dal male, dalla sofferenza, dalla corruzione. E sembra quasi che il maligno voglia permanentemente sporcare la creazione, per contraddire Dio e per rendere irriconoscibile la sua verità e la sua bellezza. In un mondo così marcato anche dal male, il "Logos", la Bellezza eterna e l’"Ars" eterna, deve apparire come "caput cruentatum".

Il Figlio incarnato, il "Logos" incarnato, è coronato con una corona di spine; e tuttavia proprio così, in questa figura sofferente del Figlio di Dio, cominciamo a vedere la bellezza più profonda del nostro Creatore e Redentore; possiamo, nel silenzio della "notte oscura", ascoltare tuttavia la Parola. Credere non è altro che, nell’oscurità del mondo, toccare la mano di Dio e così, nel silenzio, ascoltare la Parola, vedere l’Amore.

 Eminenza, grazie per tutto e facciamo ancora "camminate", ulteriormente, in questo misterioso universo della fede, per essere sempre più capaci di orare, di pregare, di annunciare, di essere testimoni della verità, che è bella, che è amore.

 Alla fine, cari amici, vorrei ringraziare tutti voi, e non solo per questa settimana, ma per questi otto anni, in cui avete portato con me, con grande competenza, affetto, amore, fede, il peso del ministero petrino. Rimane in me questa gratitudine e anche se adesso finisce l’ "esteriore", "visibile" comunione - come ha detto il Cardinale Ravasi - rimane la vicinanza spirituale, rimane una profonda comunione nella preghiera. In questa certezza andiamo avanti, sicuri della vittoria di Dio, sicuri della verità della bellezza e dell’amore.
 
 2013 - Libreria Editrice Vaticana



Caterina63
00martedì 5 marzo 2013 11:22
Messa

Predica di Padre Konrad Ringraziamento nella Messa 4.3.2013

 

In nomine Patri, et Filii, et Spiritus Sancti.
San Paolo ci ammonisce oggi di non parlare della fornicazione, di impurità o di avarizia, né di ciò che è vergognoso, sciocco o scurrile, ma piuttosto di ringraziare. Dice lui: siamo i figli dilettissimi di Dio e dunque dobbiamo camminare nel Diletto; siamo i figli della luce della quale i frutti sono la bontà, la giustizia e la verità.
Bisogna esaminarci, carissimi fedeli, sulle nostre parole: i giornali e la televisione ci presentano, quasi unicamente, una visione di una realtà tenebrosa, impura e vergognosa che non è materia degna delle parole, né delle meditazioni di noi cattolici redenti nel Sangue preziosissimo del Signore. Piuttosto bisogna ringraziare.

Chiediamoci, dunque oggi, che cosa è il ringraziamento, o la gratitudine?

La gratitudine è la virtù che inclina l'uomo a riconoscere ed a retribuire i benefici che ha ricevuto da un altro. E' una virtù necessaria e bellissima tra l'altro, perché promuove la carità e l'umiltà.
Promuove la carità in quanto unisce i cuori di coloro che danno a coloro che ricevono e promuove l'umiltà in quanto colui che rende grazie, si sottomette al suo benefattore.
Per questi motivi è una virtù che i genitori devono istillare con la massima cura nei cuori dei loro figli.

L'oggetto principale, allora, della nostra gratitudine deve essere Dio stesso. Come tale fa parte della virtù della religione che è la virtù di rendere il culto debito a Dio e si manifesta nella Preghiera.
La nostra Preghiera non deve essere solo petizione ma anche ringraziamento. Non siamo come coloro che chiedono qualche artefatto in un negozio con grande gentilezza, e quando lo ottengono non dicono più niente. Non siamo come i lebbrosi guariti dal Signore di cui solo uno è tornato per ringraziarLo, ma piuttosto proviamo a far corrispondere la gratitudine alla petizione, in un equilibrio armonioso e perfetto col cuore amorevole ed umile.
Nel sublime nostro Prefazio della Santa Messa sta il dialogo tra Sacerdote e  fedeli che, secondo Dom Prosper Guéranger, è antico quanto la Chiesa e tutto ci fa credere che siano stati gli stessi Apostoli a fissarlo, poiché si incontra nelle Chiese più antiche e in tutte le Liturgie. In questo dialogo il Sacerdote dice:

- "Rendiamo grazie al Signore - Gratias agamus Domino Deo nostro", i fedeli rispondono:

- "Dignum et iustum est - è giusto e necessario", il Sacerdote continua nella persona della Chiesa docente:

- " Vere dignum et iustum est, aequum et salutare, nos tibi semper ut ubique gratias agere: Domine, sancte Pater, omnipotens aeterne Deus: per Christum Dominum nostrum" (E' veramente giusto e necessario, è nostro dovere e nostra salvezza, renderti grazie sempre e ovunque, o Signore, Padre santo, Dio eterno e onnipotente, mediante il Cristo nostro Signore).

In questo dialogo osserviamo la frase "semper ut ubique", sempre e ovunque, bisogna ringraziare il Signore dunque, per tutto, per il bene ma anche per il male, perché il male è per il nostro ultimo bene, così come ringraziamo un medico per un trattamento anche se ci fa male, temporaneamente.
Se l'oggetto principale della nostra gratitudine e ringraziamento è Dio stesso, la sua forma più alta è la Santa Messa perché, nella Santa Messa, riconosciamo i benefici di Dio a noi e li retribuiamo in modo adeguato.
Riconosciamo i suoi benefici che sono soprattutto il Sacrificio di Nostro Signore Gesù Cristo + per amore di noi sul monte Calvario, e li retribuiamo lì, con l'offerta di questo stesso Sacrificio a Lui, durante i Sacri Misteri. Questa retribuzione è adeguata in quanto offre Nostro Signore Gesù Cristo + in riscambio per nostro Signore Gesù Cristo + in quanto offre Dio in riscambio per Dio, come prega il Sacerdote nella Santa Messa: "Cosa renderò io al Signore per tutte le cose che ha dato a me? Prenderò il Calice della salvezza e invocherò il nome del Signore".

Sempre nelle parole di Dom Guéranger leggiamo: il Sacrificio del Corpo e del Sangue di Cristo è per noi il mezzo privilegiato per ringraziare la Divina Maestà, poiché solo attraverso di Esso possiamo rendere a Dio tutto ciò che Gli dobbiamo. Il fatto che questo ringraziamento passa attraverso il Signore, viene espresso alla fine del Prefazio con le parole "per Christum Dominum nostrum".
La Santa Messa, per questi motivi, è un grande atto di ringraziamento a Dio, anzi, l'atto di ringraziamento in assoluto, perciò la Santa Messa si chiama anche Eucharistia che significa, appunto, ringraziamento.
Il ringraziamento a Dio, però non è completo senza l'offerta di sé  stessi a Dio Padre in unione all'offerta di Dio Figlio. Se nostro Signore si è dato completamente a noi, bisogna che noi ci diamo completamente a Lui.

Così nel Santo Sacrificio della Messa, nella Eucharistia ci uniamo a nostro Signore Gesù Cristo + nell'offertorio, quando il celebrante offre in anticipo il Divino Agnello al Padre, ci uniamo a Lui nella Consacrazione quando quel Divino Agnello viene immolato; e ci diamo a Lui in quella Preghiera che si chiama il ringraziamento dopo la Santa Messa; ci diamo a Lui come Lui si dona a noi, ossia in modo completo ed intero.
Bisogna ringraziare, dice San Paolo, e questo soprattutto nella Santa Messa ma anche in tutta la nostra vita in un atteggiamento di riconoscenza per tutti i benefici di Dio e nel desiderio di retribuirli, ma soprattutto con l'offerta a Dio costante di tutto ciò che facciamo, diciamo e pensiamo, di tutto ciò che siamo alla gloria della Santissima Trinità.
Amen.

In nomine Patri, et Filii, et Spiritus Sancti.

 

Sia lodato Gesù Cristo +

 

 


Caterina63
00sabato 16 marzo 2013 01:05

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
DEL SOMMO PONTEFICE
 

(quanto segue è dell'anno scorso, ma in linea di massima, a parte qualche particolare, non dovrebbe cambiare l'essenza delle celebrazioni)

LA SETTIMANA SANTA 2012 

 

Domenica 1 aprile. Domenica delle Palme e della Passione del Signore 

La Domenica delle Palme e della Passione del Signore unisce insieme il trionfo di Cristo – acclamato come Messia dagli abitanti di Gerusalemme e in questo giorno, nel rito della processione delle palme, dai cristiani – e l’annuncio della Passione con la proclamazione in canto del racconto evangelico nella Messa. I rami di ulivo e di palma sono il segno della partecipazione gioiosa al rito processionale, espressione della fede della Chiesa in Cristo, Messia e Signore che va incontro alla morte per la salvezza di tutti gli uomini

- E’ anche la Giornata Mondiale della Gioventù alla quale partecipano i giovani della Diocesi di Roma. A motivo di questa circostanza concelebrano con il Santo Padre: il Card. Vallini e S. Ecc. Mons. Paolo Schiavon (per il Vicariato di Roma), il Card. Rylko e S. Ecc. Mons. Clemens (per il Pontificio Consiglio per i Laici), il Card. Rouco Varela e S. Ecc. Mons. Cesar Franco (per la Diocesi di Madrid), S. Ecc. Mons. Orani Joao Tempesta, Arcivescovo di Rio de Janeiro, insieme a due suoi vescovi Ausiliari

- I Cardinali diaconi che assistono il Santo Padre sono: Manuel Monteiro de Castro e Antonio Maria Vegliò

- Insieme alla Cappella Sistina è presente il coro della Diocesi di Roma, diretto da Mons. Marco Frisina

- L’addobbo degli ulivi è offerto dalla Regione Puglia; i palmurelli provengono da Sanremo; i rami di ulivo sono offerti dalla Ville Pontificie di Castel Gandolfo; le foglie di palma per la processione sono donate dal Cammino Neo-Catecumenale

- Il servizio liturgico è prestato da alcuni studenti delle Università Romane e del Seminario Interdiocesano di Napoli.

 

Giovedì 5 aprile. Giovedì Santo: Messa Crismale

Durante la celebrazione i sacerdoti rinnovano le promesse fatte al momento della sacra Ordinazione e vengono benedetti gli Oli santi che saranno usati già a partire dalla Veglia pasquale.

- I sacerdoti, circa 1600 del clero secolare e religioso della Diocesi di Roma e dei Collegi Romani, rinnovano le promesse sacerdotali. Insieme a loro, concelebreranno con il Santo Padre i Cardinali e i Vescovi

- Vengono benedetti gli Oli dei Catecumeni e degli Infermi e il Crisma. La presentazione degli Oli è accompagnata dalla presenza di alcuni rappresentanti: quello dei Catecumeni da alcuni catecumeni che saranno battezzati nella Veglia pasquale; quello degli Infermi da alcuni ammalati che riceveranno il sacramento dell’Unzione; il Crisma da alcuni giovani candidati al sacramento della Confermazione e da 4 diaconi che saranno ordinati sacerdoti. Le anfore contenenti gli Oli: tre sono del Toffetti, altre 3 (quelle in argento) sono un dono di alcuni anni fa alla sagrestia pontificia, proveniente dalla Spagna

- L’olio per la celebrazione della Messa Crismale è donato dalla cooperativa “Arte e Alimentaciòn SL” di Castelseras in Spagna Le sostanze profumate per confezionare il Crisma verranno versate nell’Olio dal Diacono prima della preghiera di benedizione

- Gli Oli verranno portati a San Giovanni in Laterano, dove saranno distribuiti ai sacerdoti della Diocesi di Roma per l’amministrazione dei Sacramenti nel corso dell’anno

- Il servizio è prestato dagli studenti dell’Istituto Teologico Don Orione

- Alla colonna della Confessione sarà collocata una statua lignea della Madonna con il Bambino. La statua, conservata presso i Musei Vaticani, è un dono del Presidente del Brasile Joao Goulart a Paolo VI in occasione della sua elezione al soglio pontificio nel 1963. L’opera, di scuola brasiliana, e risalente al sec. XVIII, rappresenta Nostra Signora di Montserrat ed è dipinta in oro con policromia originale e maccatura in argento.

 

Giovedì 5 aprile. Giovedì santo: Messa nella Cena del Signore

I grandi misteri della nostra redenzione sono celebrati dalla Messa vespertina del giovedì “nella Cena del Signore” fino ai vespri della domenica di Pasqua. Triduo pasquale non significa tre giorni di preparazione alla Pasqua, ma equivale a Pasqua celebrata in tre giorni, la Pasqua nella sua totalità, quale passaggio dalla passione e morte alla sepoltura, fino alla risurrezione. Si tratta di un unico mistero celebrato in tre momenti, nello spazio di tre giorni.

Il Triduo pasquale si apre con la celebrazione Eucaristica della sera, così come la cena del Signore segnò l’inizio della passione. Mentre Gesù si avvia alla donazione della sua vita in sacrificio espiatorio per la salvezza del mondo, stabilisce l’Eucaristia quale ripresentazione nel tempo del suo atto sacrificale e del mistero della salvezza. L’Eucaristia, espressione mirabile della carità del Cuore di Cristo, suggerisce una risposta di amore riconoscente, mediante l’adorazione del SS. Sacramento e l’esercizio del servizio ai fratelli.

- Il Santo Padre compirà il gesto della lavanda dei piedi a 12 sacerdoti della Diocesi di Roma. Con questo gesto viene riproposto il gesto stesso di Gesù agli apostoli, rivelazione del mistero di Dio e segno di donazione totale della vita

- La Santa Messa sarà concelebrata dai Signori Cardinali, dai Vescovi e da alcuni Sacerdoti

- E’ consuetudine che le offerte raccolte nel corso della Messa vengano devolute per prestare aiuto a qualche realtà bisognosa. Per quest’anno le offerte saranno devolute per l’assistenza umanitaria ai profughi siriani

- Il Santo Padre siede alla cattedra papale: quella della Basilica di San Giovanni in Laterano è la cattedra propria del Vescovo di Roma

- Il Santo Padre distribuisce la Santa Comunione, come è consuetudine, ad alcuni membri del Corpo Diplomatico

- Al termine della celebrazione si svolge la breve processione con la reposizione del SS. Sacramento all’altare della Cappella di San Francesco

- Il servizio è prestato dagli studenti del Seminario Romano Maggiore

 

Venerdì 6 aprile. Venerdì Santo: Celebrazione della Passione del Signore

Il venerdì santo è il giorno della Passione e Morte del Signore e del digiuno, quale segno esteriore della nostra partecipazione al suo sacrificio. Il venerdì non si celebra l’Eucaristia. Ma è prevista un’azione pomeridiana per commemorare la Passione e Morte del Signore. Cristo appare come il servo di Dio, predetto dai profeti, l’agnello che si sacrifica per la salvezza di tutti. La Croce è l’elemento che domina tutta la celebrazione: illuminata dai raggi della risurrezione, si presenta come trono di gloria e strumento di vittoria; perciò è presentata all’adorazione dei fedeli.

- All’inizio della celebrazione il Santo Padre si inginocchia alcuni minuti davanti all’altare pregando in silenzio, in segno di adorazione e di richiesta di perdono e di penitenza

- Il racconto della Passione è cantato da tre diaconi con il concorso della Cappella Sistina.

- L’omelia è tenuta da Padre Raniero Cantalamessa o.f.m.capp., predicatore della Casa Pontificia

- Il Santo Padre ostende la Croce, presentandola all’adorazione dei fedeli, e poi la bacia togliendo la casula e le scarpe, sempre in segno di penitenza

- La sede papale, come già avvenuto in altre occasioni, è collocata di fronte alla statua di San Pietro, nella navata centrale della Basilica

- I Cardinali diaconi che assistono il Santo Padre sono: Francesco Coccopalmerio e Mauro Piacenza

- Il Santo Padre distribuirà la Santa Comunione ai Signori Cardinali

- Le luci soffuse della Basilica sono il segno del clima penitenziale della celebrazione

- Il servizio liturgico è svolto da alcuni studenti Passionisti e del Pontificio Collegio Nepomuceno

 

Venerdì 6 aprile. Venerdì Santo: Via Crucis al Colosseo

- I testi della Via Crucis sono stati preparati dai coniugi Danilo e Anna Maria Zanzucchi, del Movimento dei Focolari e iniziatori del Movimento “Famiglie Nuove”. Le immagini del libretto ad uso dei fedeli riproducono le formelle della Via Crucis, realizzate dal Prof. Benedetto Pietrogrande nel 2009 e collocate nella cappella del Centro del Movimento dei Focolari a Rocca di Papa.

- Le torce accanto alla Croce sono portate da due giovani della Diocesi di Roma; la Croce viene portata, oltre che dal Card. Vallini, da due frati francescani della Custodia di Terra Santa e da alcune famiglie provenienti dall’Italia, dall’America Latina, dall’Africa, dall’Irlanda

 

Sabato 7 aprile. Veglia Pasquale 

La Veglia pasquale è la grande e santissima notte dell’anno, la celebrazione più antica, più importante e più ricca di contenuto. Si veglia per indicare che viviamo in attesa della venuta del Signore, nella speranza che si compia il nuovo e definitivo passaggio segnato dall’eternità. Nella Veglia si esprime il nostro passaggio dalla morte e dal peccato alla vita nuova in Cristo.

Al centro dei riti iniziali si trova il cero, simbolo di Cristo risorto; alla sua luce si ascolta il solenne annunzio della Pasqua (il canto dell’Exultet) e la parola di Dio in cui è rievocata la storia della salvezza, dalla creazione alla risurrezione di Cristo; segue la prima partecipazione alla Pasqua mediante il Battesimo e la rinnovazione delle promesse battesimali, con la professione di fede e la preghiera universale o dei fedeli; infine si celebra l’Eucaristia, in cui l’agnello pasquale, risorto da morte, si fa cibo per noi perché viviamo di Lui e per Lui nella logica della santità.

La Celebrazione Eucaristica della Veglia è il culmine del Triduo, anzi dell’intero anno liturgico, la sorgente della gioia pasquale. La Messa della domenica detta di Risurrezione non è che il prolungamento della Celebrazione Eucaristica della notte.

- Il Santo Padre amministra il Battesimo, la Cresima e la Prima Comunione a 8 neofiti, provenienti da: Italia, Albania, Slovacchia, Camerun, Germania, Turkmenistan, Stati Uniti. I catecumeni ricevono la Santa Comunione sotto le due specie del pane e del vino, Corpo e Sangue del Signore

- La Santa Messa sarà concelebrata dai Signori Cardinali

- La celebrazione si apre nell’atrio antistante la basilica, dove avviene il rito della benedizione del fuoco e della preparazione del cero pasquale, donato come di consueto dalla Comunità Neo Catecumenale di Roma

- In Basilica il passaggio dal buio alla luce simboleggia l’ingresso della Luce che è Cristo,Via, Verità e Vita, nel mondo tenebroso del peccato, della solitudine e della morte

- La collocazione del fonte battesimale al centro ai piedi della Confessione con accanto il Cero pasquale, intende anche sottolineare l’importanza simbolica del fonte battesimale, nella liturgia della Veglia di Pasqua

- Il servizio liturgico è svolto dagli studenti del Seminario Internazionale San Vitaliano e del Collegio San Norberto

 

Domenica 8 aprile. Pasqua di Risurrezione 

- La Celebrazione si apre con il rito del “Resurrexit”, che prevede l’apertura dell’immagine del Risorto. Si tratta di un’icona realizzata prestando la debita attenzione al prototipo medioevale. La nuova icona, come quella antica, è costituita dall’immagine dipinta del Salvatore, seduto in trono, con due sportelli laterali

- Questo rito, anticamente, era compiuto prima della Celebrazione Eucaristica, nella Basilica Lateranense, da cui il Papa procedeva processionalmente per recarsi in Santa Maria Maggiore dove celebrava la Messa

- Come è consuetudine la Santa Messa non sarà concelebrata

- L’addobbo floreale, come di consueto, è offerto dai fiorai olandesi

- Il Santo Padre, inoltre, compie il rito dell’aspersione con l’acqua benedetta a ricordo del Battesimo come atto penitenziale che introduce alla celebrazione dei Santi Misteri del Signore

- Il Santo Padre non tiene l’omelia, in quanto alla Messa seguirà la benedizione “Urbi et Orbi” dalla loggia centrale della Basilica, con l’augurio pasquale. Fanno assistenza al Papa i Cardinali diaconi Jean-Louis Tauran (Cardinale protodiacono) e Raymond Leo Burke

- La proclamazione del Vangelo avverrà in latino e in greco per sottolineare la universalità della celebrazione pasquale. Il servizio liturgico è svolto dagli studenti del Seminario Teologico dell’Opera Don Guanella

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Caterina63
00giovedì 21 marzo 2013 11:07
[SM=g1740733] VI RICORDIAMO CHE IL 25 MARZO E' LA FESTA DELL'ANNUNCIAZIONE DELL'ANGELO A MARIA SANTISSIMA.....
siamo vicini alla Settimana Santa, non vogliamo lasciarci distrarre da tutto ciò che potrebbe impedirci di vivere con profitto questi giorni ;-)
Vi invitiamo a meditare con il Trattato della vera Devozione a Maria di san Luigi M. Grignon de Montfort e la dolcissima melodia dell'Ave Maria....

it.gloria.tv/?media=80273



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Caterina63
00lunedì 25 marzo 2013 15:00

PAPA FRANCESCO: MESSA "IN COENA DOMINI" SIA SEMPLICE E INTIMA

Città del Vaticano, 26 marzo 2013 (VIS). La Santa Messa che Papa Francesco celebrerà il Giovedì Santo nella Cappella dell'Istituto Penale Minorile (IPM) di Casal del Marmo sarà per sua espressa volontà molto semplice, ha informato Padre Federico Lombardi, S.I., Direttore della Sala Stampa della Santa Sede. Insieme al Papa concelebreranno il Cardinale Agostino Vallini, Suo Vicario Generale per la Diocesi di Roma, il Padre Gaetano Greco, cappellano del carcere minorile. Saranno presenti due diaconi: Fra Roi Jenkins Albuen, terziario cappuccino dell'Addolorata ed il Padre colombiano Pedro Acosta.

Alla celebrazione prenderanno parte circa 50 giovani, fra cui 11 ragazze, tutti ospiti dell'Istituto di pena. Il Papa laverà i piedi a dodici giovani di nazionalità e confessione religiosa diversa. Le letture e la preghiera dei fedeli saranno letti dai giovani ospiti.

Al termine della Messa il Papa incontrerà i giovani e il personale dell'IPM nella palestra dell'Istituto. È prevista la partecipazione di 150 persone. Tra la autorità presenti è da segnalare il ministro della Giustizia Paola Severino, il Capo del Dipartimento per la Giustizia Minorile, Presidente Caterina Chinnici, il Comandante della Polizia Penitenziaria I.P.M. Casal del marmo, Saulo Patrizi e la Direttrice di Casal del Marmo, Liana Giambartolomei.

I giovani doneranno al Papa un crocifisso in legno e un inginocchiatoio sempre in legno, realizzato da loro stessi nel laboratorio artigianale di Casal del Marmo, mentre il Santo Padre regalerà uova e colombe pasquali a tutti.

Dato il carattere intimo della visita pastorale, la presenza dei giornalisti sarà limitata all'esterno dell'edificio e non ci sarà una trasmissione televisiva in diretta.


CELEBRAZIONI DELLA SETTIMANA SANTA PRESIEDUTE DAL PAPA

Città del Vaticano, 25 marzo 2013 (VIS). L'Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice ha reso noto questa mattina il calendario delle celebrazioni della Settimana Santa presiedute dal Santo Padre Francesco.

- 28: Giovedì Santo: alle 9:30, nella Basilica Vaticana, Santa Messa del Crisma.

Alle 17:30, Santa Messa nella Cena del Signore, all’Istituto Penale per Minori di Casal del Marmo in Roma.

- 29: Venerdì Santo: alle 17:00, nella Basilica Vaticana, Celebrazione della Passione del Signore.

Alle 21:15, Via Crucis al Colosseo.

- 30: Sabato Santo: alle 20:30, nella Basilica Vaticana, Veglia Pasquale nella Notte Santa.

- 31: Domenica di Pasqua: alle 10:15, in Piazza San Pietro, Santa Messa del giorno. Alle 12:00, Benedizione "Urbi et Orbi".

****************

Intanto stamani......


Messa di Papa Francesco a "Santa Marta": Dio è paziente con le nostre debolezze



Durante la Settimana Santa, pensiamo alla “pazienza” che Dio ha con ognuno di noi. Lo ha detto questa mattina Papa Francesco durante la breve omelia della Messa presieduta, come di consueto, nella Cappella della “Casa Santa Marta” in Vaticano, alla quale erano presenti, tra gli altri, i giornalisti de L’Osservatore Romano. Il servizio di Alessandro De Carolis:

L’emblema dell’infinita pazienza che Dio ha per l’uomo è riflesso nell’infinita pazienza che Gesù ha per Giuda. Papa Francesco ha preso spunto dalla scena del Vangelo di oggi, nel quale Giuda critica la scelta di Maria, sorella di Lazzaro, di ungere i piedi di Gesù con trecento grammi di prezioso profumo: meglio sarebbe stato – sostiene Giuda – venderlo e dare il ricavato ai poveri. Giovanni nota nel Vangelo che a Giuda non interessavano i poveri ma i soldi, che rubava. Eppure, ha osservato il Papa, “Gesù non gli ha detto: ‘Tu sei un ladro’”. Con l’amore, ha affermato, “è stato paziente con Giuda, cercando di attirarlo a sé con la sua pazienza, con il suo amore. Ci farà bene pensare – ha soggiunto – in questa Settimana Santa, alla pazienza di Dio, a quella pazienza che il Signore ha con noi, con le nostre debolezze, con i nostri peccati”.

Anche il brano di Isaia della prima lettura, aveva notato Papa Francesco, nel presentare “l’icona di quel ‘servo di Dio’, ha sottolineato di Gesù la mitezza, la pazienza. Che è la pazienza di Dio stesso. “Quando si pensa alla pazienza di Dio: quello è un mistero!”, ha esclamato Papa Francesco. “Quanta pazienza ha Lui con noi! Facciamo tante cose, ma Lui è paziente”. E lo è, ha detto ancora, “come quel padre che il Vangelo dice che ha visto il figlio da lontano, quel figlio che se n’era andato con tutti i soldi della sua eredità”. E perché, si è chiesto il Papa, l’ha visto da lontano? “Perché tutti i giorni andava in alto a guardare se il figlio tornava”. Questa, ha ripetuto Papa Francesco, “è la pazienza di Dio, questa è la pazienza di Gesù”. E ha concluso: “Pensiamo a un rapporto personale, in questa Settimana: come è stata nella mia vita la pazienza di Gesù con me? Soltanto questo. E poi, uscirà dal nostro cuore una sola parola: ‘Grazie, Signore! Grazie per la tua pazienza”.



Testo proveniente dalla pagina it.radiovaticana.va/news/2013/03/25/messa_di_papa_francesco_a_santa_marta:_dio_è_paziente_con_le_nostr/it...
del sito Radio Vaticana






Caterina63
00mercoledì 27 marzo 2013 15:47


UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 27 marzo 2013

[Video]

 

Fratelli e sorelle, buongiorno!

Sono lieto di accogliervi in questa mia prima Udienza generale. Con grande riconoscenza e venerazione raccolgo il “testimone” dalle mani del mio amato predecessore Benedetto XVI. Dopo la Pasqua riprenderemo le catechesi dell’Anno della fede. Oggi vorrei soffermarmi un po’ sulla Settimana Santa. Con la Domenica delle Palme abbiamo iniziato questa Settimana – centro di tutto l’Anno Liturgico – in cui accompagniamo Gesù nella sua Passione, Morte e Risurrezione.

Ma che cosa può voler dire vivere la Settimana Santa per noi? Che cosa significa seguire Gesù nel suo cammino sul Calvario verso la Croce e la Risurrezione? Nella sua missione terrena, Gesù ha percorso le strade della Terra Santa; ha chiamato dodici persone semplici perché rimanessero con Lui, condividessero il suo cammino e continuassero la sua missione; le ha scelte tra il popolo pieno di fede nelle promesse di Dio. Ha parlato a tutti, senza distinzione, ai grandi e agli umili, al giovane ricco e alla povera vedova, ai potenti e ai deboli; ha portato la misericordia e il perdono di Dio; ha guarito, consolato, compreso; ha dato speranza; ha portato a tutti la presenza di Dio che si interessa di ogni uomo e ogni donna, come fa un buon padre e una buona madre verso ciascuno dei suoi figli.

Dio non ha aspettato che andassimo da Lui, ma è Lui che si è mosso verso di noi, senza calcoli, senza misure. Dio è così: Lui fa sempre il primo passo, Lui si muove verso di noi. Gesù ha vissuto le realtà quotidiane della gente più comune: si è commosso davanti alla folla che sembrava un gregge senza pastore; ha pianto davanti alla sofferenza di Marta e Maria per la morte del fratello Lazzaro; ha chiamato un pubblicano come suo discepolo; ha subito anche il tradimento di un amico. In Lui Dio ci ha dato la certezza che è con noi, in mezzo a noi. «Le volpi – ha detto Lui, Gesù – le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Gesù non ha casa perché la sua casa è la gente, siamo noi, la sua missione è aprire a tutti le porte di Dio, essere la presenza di amore di Dio.

Nella Settimana Santa noi viviamo il vertice di questo cammino, di questo disegno di amore che percorre tutta la storia dei rapporti tra Dio e l’umanità. Gesù entra in Gerusalemme per compiere l’ultimo passo, in cui riassume tutta la sua esistenza: si dona totalmente, non tiene nulla per sé, neppure la vita. Nell’Ultima Cena, con i suoi amici, condivide il pane e distribuisce il calice “per noi”. Il Figlio di Dio si offre a noi, consegna nelle nostre mani il suo Corpo e il suo Sangue per essere sempre con noi, per abitare in mezzo a noi. E nell’Orto degli Ulivi, come nel processo davanti a Pilato, non oppone resistenza, si dona; è il Servo sofferente preannunciato da Isaia che spoglia se stesso fino alla morte (cfr Is 53,12).

Gesù non vive questo amore che conduce al sacrificio in modo passivo o come un destino fatale; certo non nasconde il suo profondo turbamento umano di fronte alla morte violenta, ma si affida con piena fiducia al Padre. Gesù si è consegnato volontariamente alla morte per corrispondere all’amore di Dio Padre, in perfetta unione con la sua volontà, per dimostrare il suo amore per noi. Sulla croce Gesù «mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Ciascuno di noi può dire: Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. Ciascuno può dire questo “per me”.

Che cosa significa tutto questo per noi? Significa che questa è anche la mia, la tua, la nostra strada. Vivere la Settimana Santa seguendo Gesù non solo con la commozione del cuore; vivere la Settimana Santa seguendo Gesù vuol dire imparare ad uscire da noi stessi - come dicevo domenica scorsa - per andare incontro agli altri, per andare verso le periferie dell’esistenza, muoverci noi per primi verso i nostri fratelli e le nostre sorelle, soprattutto quelli più lontani, quelli che sono dimenticati, quelli che hanno più bisogno di comprensione, di consolazione, di aiuto. C’è tanto bisogno di portare la presenza viva di Gesù misericordioso e ricco di amore!

Vivere la Settimana Santa è entrare sempre più nella logica di Dio, nella logica della Croce, che non è prima di tutto quella del dolore e della morte, ma quella dell’amore e del dono di sé che porta vita. E’ entrare nella logica del Vangelo. Seguire, accompagnare Cristo, rimanere con Lui esige un “uscire”, uscire. Uscire da se stessi, da un modo di vivere la fede stanco e abitudinario, dalla tentazione di chiudersi nei propri schemi che finiscono per chiudere l’orizzonte dell’azione creativa di Dio. Dio è uscito da se stesso per venire in mezzo a noi, ha posto la sua tenda tra noi per portarci la sua misericordia che salva e dona speranza. Anche noi, se vogliamo seguirlo e rimanere con Lui, non dobbiamo accontentarci di restare nel recinto delle novantanove pecore, dobbiamo “uscire”, cercare con Lui la pecorella smarrita, quella più lontana. Ricordate bene: uscire da noi, come Gesù, come Dio è uscito da se stesso in Gesù e Gesù è uscito da se stesso per tutti noi.

Qualcuno potrebbe dirmi: “Ma, padre, non ho tempo”, “ho tante cose da fare”, “è difficile”, “che cosa posso fare io con le mie poche forze, anche con il mio peccato, con tante cose? Spesso ci accontentiamo di qualche preghiera, di una Messa domenicale distratta e non costante, di qualche gesto di carità, ma non abbiamo questo coraggio di “uscire” per portare Cristo.

Siamo un po’ come san Pietro. Non appena Gesù parla di passione, morte e risurrezione, di dono di sé, di amore verso tutti, l’Apostolo lo prende in disparte e lo rimprovera. Quello che dice Gesù sconvolge i suoi piani, appare inaccettabile, mette in difficoltà le sicurezze che si era costruito, la sua idea di Messia. E Gesù guarda i discepoli e rivolge a Pietro forse una delle parole più dure dei Vangeli: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8,33). Dio pensa sempre con misericordia: non dimenticate questo. Dio pensa sempre con misericordia: è il Padre misericordioso! Dio pensa come il padre che attende il ritorno del figlio e gli va incontro, lo vede venire quando è ancora lontano…
Questo che significa? Che tutti i giorni andava a vedere se il figlio tornava a casa: questo è il nostro Padre misericordioso. E’ il segno che lo aspettava di cuore nella terrazza della sua casa. Dio pensa come il samaritano che non passa vicino al malcapitato commiserandolo o guardando dall’altra parte, ma soccorrendolo senza chiedere nulla in cambio; senza chiedere se era ebreo, se era pagano, se era samaritano, se era ricco, se era povero: non domanda niente. Non domanda queste cose, non chiede nulla. Va in suo aiuto: così è Dio. Dio pensa come il pastore che dona la sua vita per difendere e salvare le pecore.

La Settimana Santa è un tempo di grazia che il Signore ci dona per aprire le porte del nostro cuore, della nostra vita, delle nostre parrocchie - che pena tante parrocchie chiuse! - dei movimenti, delle associazioni, ed “uscire” incontro agli altri, farci noi vicini per portare la luce e la gioia della nostra fede. Uscire sempre! E questo con amore e con la tenerezza di Dio, nel rispetto e nella pazienza, sapendo che noi mettiamo le nostre mani, i nostri piedi, il nostro cuore, ma poi è Dio che li guida e rende feconda ogni nostra azione.

Auguro a tutti di vivere bene questi giorni seguendo il Signore con coraggio, portando in noi stessi un raggio del suo amore a quanti incontriamo.


Caterina63
00venerdì 29 marzo 2013 11:49

Buona Pasqua di Nostro Signore Gesù Cristo

29.03.2013 11:39




SABATO SANTO.
Sabato Santo è il giorno del "silenzio di Dio". Ma perchè diciamo che è del Silenzio di Dio? Perchè lo abbiamo rifiutato, lo abbiamo barattato con la menzogna preferendo alla Verità, Barabba.
E' infatti duro leggere nei santi ...Vangeli la domanda di Pilato: "Chi volete che vi liberi, Barabba o Gesù chiamato il Cristo?". Più penosa ancora è la risposta: "Barabba!".
Ma ben più terribile è il dover ammettere che - tante volte! - nell'allontanarmi dal cammino, anch'io ho detto: "Barabba!"; ed ho aggiunto: "Cristo?...Crucifige eum! Crocifiggilo!" ed è importante constatare che quando abbiamo gridato "libero Barabba" abbiamo liberato la menzogna, abbiamo preferito la menzogna alla Verità che, nell'immagine dell'Ecce Homo, era lì a portata di mano e l'abbiamo voluta crocifiggere.
( san Josemaria Escrivà de Balaguer )

 

CAPITOLO XVI.

Meditazioni sulla Passione di Nostro Signore Gesù Cristo

di Sant'Alfonso M. de Liguori

Dell'amore del Figlio di Dio in aver voluto morire per noi

1. Ecco il tuo tempo, tempo dell'amore... E sei diventata di una bellezza straordinaria (cf Ez 16, 8, 13). Quanto dobbiamo al Signore noi Cristiani, che ci ha fatti nascere dopo la venuta di Gesù Cristo! Il tempo nostro non è più tempo di timore, come era quello degli Ebrei, ma tem­po di amore, avendo veduto un Dio morto per la nostra salute (salvezza) e per essere amato da noi. E' di fede, che Gesù ci ha amati, e per no­stro amore si è dato alla morte: Cristo ci ha ama­ti e ha dato se stesso per noi (cf Ef 5, 2). E chi mai avrebbe potuto far morire un Dio onnipo­tente, se egli stesso volontariamente non avesse voluto dar la vita per noi? Io offro la mia vita... Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso (Gv 10, 17-18). Perciò nota S. Giovanni che Gesù nella sua morte ci diede l'ultima prova che potea darci del suo amore: Dopo aver amato i suoi... li amò sino alla fine (Gv 13, 1). Gesù nelle sua morte, dice un divoto autore, ci diede il segno più grande del suo amore, dopo cui non gli restò che fare per dimostrarci quanto ci amava.

Amato mio Redentore, voi per amore vi siete donato tutto a me: io per amore mi dono tutto a voi. Voi per la mia salute (salvezza) avete da­ta la vita: io per la vostra gloria voglio morire quando e come vi piace. Voi non avete avuto più che fare per acquistarvi il mio amore: ma io ingrato vi ho cambiato per niente.

Gesù mio, me ne pento con tutto il cuore, per­donatemi voi per la vostra Passione; ed in se­gno del perdono datemi l'aiuto per amarvi. Io sento in me, per vostra grazia, un gran deside­rio di amarvi, e risolvo d'esser tutto vostro; ma vedo la mia fiacchezza e vedo i tradimenti che vi ho fatti; voi solo potete soccorrermi e ren­dermi fedele. Aiutatemi, amor mio; fate che io v'ami e niente più vi domando.

2. Dice il B. Dionisio Cartusiano che la Pas­sione di Gesù Cristo fu chiamata un eccesso: Chiamavano il suo eccesso quello che avrebbe dovuto portare a compimento in Gerusalemme, perché fu un eccesso di pietà e d'amore. Oh Dio! e qual fedele potrebbe vivere senza amar Gesù Cristo, se spesso meditasse la sua Passione? Le piaghe di Gesù, dice S. Bonaventura, perché son piaghe d'amore, son dardi e fiamme che feriscono i cuori più duri ed accendono le anime più gelate.

Il B. Errico Susone un giorno, per imprimersi maggiormente nel cuore l'amore verso Gesù ap­passionato, prese un ferro tagliente e si scolpì a caratteri di ferite sopra del petto il nome del suo amato Signore; e stando così bagnato di san­gue se ne andò poi alla Chiesa, e prostrato avan­ti il Crocefisso gli disse: « O Signore, unico amo­re dell'anima mia, rimirate il mio desiderio: io avrei voluto scrivervi più dentro al mio cuore, ma non posso. Voi che potete il tutto, supplite quello che manca alle mie forze, e nel più pro­fondo del mio cuore imprimete il vostro nome adorato sì che non si possa cancellare in esso nè il vostro nome nè il vostro amore ».

Il mio diletto è candido e rubicondo, scelto tra migliaia (cf Ct 5, 10). O Gesù mio, voi siete tutto candido per la vostra illibata innocenza; ma state poi su questa croce tutto rubicondo di piaghe sofferte per me. Io vi eleggo per unico oggetto del mio amore. E chi voglio amare, se non amo voi? Quale oggetto fra tutti io posso trovare più amabile di voi, mio Redentore, mio Dio, mio tutto? V'amo, o Signore amabilissimo, v'amo sopra ogni cosa. Fate voi ch'io vi ami con tutto il mio affetto e senza riserba.

3. Se conoscessi il mistero della croce! Disse S. Andrea al tiranno! O tiranno, ei volle dire, se tu intendessi l'amore che ti ha portato Gesù Cristo in voler morire su di una croce per sal­varti, tu lasceresti tutti i tuoi beni e speranze terrene, per darti tutto all'amore di questo tuo Salvatore. Lo stesso dee dirsi a quei fedeli che credono bensì la Passione di Gesù, ma poi non ci pensano.

Ah che se tutti gli uomini pensassero all'amo­re che Gesù Cristo ci ha dimostrato nella sua morte, chi mai potrebbe non amarlo? Egli, l'ama­to Redentore, dice l'Apostolo, a questo fine è morto per noi: acciocché coll'amore dimostratoci nella sua morte si facesse padrone dei nostri cuo­ri: Per questo Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi. Sia che moriamo, sia che viviamo siamo dunque del Signore (Rm 8, 19, 18). O dunque moriamo o vi­viamo è giusto che siamo tutti di Gesù che a tanto costo ci ha salvati. Oh chi potesse dire come dicea l'innamorato S. Ignazio martire che eb­be la sorte di dar la vita per Gesù Cristo. Venga­no sopra di me le fiamme, le croci, le fiere e tutti i tormenti, purché io faccia acquisto e mi goda Gesù Cristo mio.

O caro mio Signore, voi siete morto per acqui­stare l'anima mia; ma che ho fatto io per far ac­quisto di voi bene infinito! Ah Gesù mio, quan­te volte vi ho perduto per niente! Misero io già conosceva che perdeva la vostra grazia col mio peccato, conosceva che vi dava un gran disgusto, e pure l'ho fatto! Mi consolo che ho da fare con una bontà infinita che si scorda delle offese, allor­ché un peccatore si pente e l'ama. Sì, mio Dio, mi pento e v'amo. Deh perdonatemi voi e voi dominate da oggi innanzi in questo mio cuore ri­belle. Io a voi lo consegno: a voi mi dono tutto intieramente. Ditemi quel che volete, che io tut­to lo voglio fare. Sì, mio Signore, vi voglio ama­re, vi voglio contentare in tutto; datemi forza voi, e spero di farlo.

4. Gesù colla sua morte non ha finito di amar­ci; egli ci ama e ci va cercando collo stesso amo­re con cui venne dal cielo a cercarci ed a morire per noi.

E' celebre la finezza d'amore che dimostrò il Redentore a S. Francesco Saverio allorché viag­giando questi per mare, in una tempesta gli fu tolto da un'onda il suo Crocifisso. Arrivato poi il santo al lido, stava mesto ed anelava di ricu­perare l'immagine del suo amato Signore; ed ec­co che vide un granchio che veniva alla sua vol­ta col Crocifisso inalberato tra le sue branche. Egli allora gli andò all'incontro e con lagrime di tenerezza e d'amore lo ricevè e se lo strinse al petto.

Oh con quale amore va Gesù a quell'anima che lo cerca! Buono è il Signore... con l'anima che lo cerca (Lam 3, 25), ma a quell'anima che lo cerca con vero amore. Ma posson pensare di aver questo vero amore coloro che ricusano le croci che sono loro inviate dal Signore? Cristo non cercò di pia­cere a se stesso (Rm 15, 3). Cristo, espone Cor­nelio a Lapide, non servì la propria volontà, ma offrì tutto questo e la propria vita per la nostra salvezza. Gesù per amor nostro non cercò piace­ri terreni, ma cercò le pene e la morte con tut­tochè era innocente: e noi che cerchiamo per amore di Gesù Cristo? Si lamentava un giorno S. Pietro martire, stando in carcere per una ingiusta accusa che gli era stata fatta, e diceva: « Ma, Signore, che ho fatto io che ho da patire questa persecuzione? ». Gli rispose il Crocifisso: « Ed io che male ho fatto che ho dovuto stare su questa croce? ».

O mio caro Salvatore, diceste che male avete fatto? Ci avete troppo amati, mentre per amor nostro avete voluto tanto patire. E noi, che per li peccati nostri meritavamo l'inferno, ricusere­mo di patire quello che voi volete per nostro be­ne? Voi, Gesù mio, siete tutto amore con chi vi cerca. Io non cerco le vostre dolcezze e consola­zioni: cerco solo voi e la vostra volontà. Donate­mi il vostro amore, e poi trattatemi come vi pia­ce. Abbraccio tutte le croci che mi manderete, po­vertà, persecuzioni, infermità, dolori; liberatemi solo dal male del peccato, e poi caricatemi d'ogni altro male. Tutto sarà poco a confronto dei mali che voi avete sofferti per amor mio.

5. Dice S. Bernardo che per liberare lo schia­vo il Padre non ha perdonato al Figlio e il Figlio non ha perdonato a se stesso. E dopo un tanto amore verso gli uomini vi potrà essere uomo che non ami questo Dio sì amante? Scrisse l'Aposto­lo, che Gesù è morto per tutti noi, affinché noi vivessimo solo a lui ed al suo amore (cf 2 Cor 5, 15). Ma oimè, che la maggior parte degli uomini, dopo esser morto per essi un Dio, vivono ai pec­cati, al demonio e non a Gesù Cristo! Dicea Pla­tone che l'amore è calamita dell'amore. E Seneca replicava: Ama se vuoi essere amato. E Gesù, che morendo per gli uomini sembra che sia impazzito per nostro amore - dice S. Gregorio - come va che dopo tanti contrassegni d'amore non ha po­tuto tirarsi i nostri cuori? Come, con amarci tan­to, non è ancor giunto a farsi amare da noi?

Oh che vi amassero tutti gli uomini, Gesù mio amabilissimo! Voi siete un Dio degno di un amo­re infinito. Ma povero mio Signore, permettete­mi che così vi chiami, voi siete così amabile, voi avete fatto e patito tanto per essere amato dagli uomini, ma quanti poi son quelli che vi amano? Vedo quasi tutti gli uomini applicati ad amare chi i parenti, chi gli amici, chi le carogne, le ric­chezze, gli onori, i piaceri, e chi anche le bestie: ma quanti sono quelli che amano voi, amabile infinito? O Dio, son troppo pochi, ma fra questi pochi voglio essere io misero peccatore che un tempo anche vi ho offeso con amare il fango e partendomi da voi; ma ora v'amo e vi stimo sopra ogni bene e solo voi voglio amare. Perdona­temi, Gesù mio, e soccorretemi.

6. Dunque, o Cristiano, dicca S. Cipriano, Dio è contento di te sino a morire per acquistarsi il tuo amore, e tu non sarai contento di Dio, sì che amerai altri oggetti fuori del tuo Signore?

Ah no, mio amato Gesù, io non voglio altro amore in me che non sia per voi; io di voi son contento: rinunzio a tutti gli altri affetti, mi ba­sta solo il vostro amore. Sento che voi mi dite: Mettimi come sigillo sul tuo cuore (Ct 8, 6). Sì, Gesù mio crocifisso, io vi pongo e ponetevi an­cora voi per suggello sopra del mio cuore, accioc­ché resti chiuso ad ogni altro affetto che non ten­de a voi. Per lo passato vi ho disgustato per al­tri amori, ma al presente non ho pena che più mi affligga che il ricordarmi di aver coi miei peccati perduto il vostro amore. Per l'avvenire: chi più dal vostro amore mi dividerà? (cf Rm 6, 35).

No, mio amabilissimo Signore, dopo che mi avete fatto conoscere l'amore che mi avete porta­to, io non mi fido di vivere più senza amarvi. V'amo, amor mio crocifisso; v'amo con tutto il cuore, e vi do quest'anima mia tanto cercata ed amata da voi. Deh per li meriti della vostra mor­te, che con tanto dolore separò l'anima vostra be­nedetta dal vostro corpo, distaccatemi da ogni amore che può impedirmi l'essere tutto vostro e di amarvi con tutto il mio cuore.

Maria, speranza mia, aiutatemi voi ad amare solo il vostro dolcissimo Figlio, sì che io possa con verità sempre replicare in tutta la mia vita: L'amore mio è stato crocifisso. L'amore mio è sta­to crocifisso. Amen.

Orazione di S. Bonaventura

O Gesù che per me non avete perdonato a voi stesso, imprimete in me la vostra Passione, ac­ciocché io dove mi volti, miri le vostre piaghe e non trovi altro riposo che in voi e nel meditare le vostre pene. Amen.

Con questi sentimenti il Blog con il suo Staff formula a tutti i Visitatori gli Auguri più fervidi per una Buona e Santa Pasqua di Nostro Signore Gesù Cristo.

Ricordiamo anche che da oggi inizia la Novena alla Divina Misericordia di Santa Faustina Kowalska.

 

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Caterina63
00martedì 27 gennaio 2015 14:36

  Quaresima, Messaggio Papa: non globalizzare l'indifferenza




Messaggio per la Quaresima - RV





27/01/2015



I cristiani affrontino la globalizzazione dell’indifferenza. Papa Francesco nel Messaggio per la Quaresima 2015 invita a lottare contro l’attitudine egoistica che oggi ha assunto una dimensione mondiale e che spinge a dimenticarsi, o peggio, a ignorare le persone che soffrono, le ingiustizie che subiscono e, più in generale, i loro problemi; ma anche a ignorare Dio stesso, che “non è indifferente al mondo, ma lo ama fino a dare il suo Figlio per la salvezza di ogni uomo”


E’ compito della Chiesa mantenere aperta la porta tra Dio e Uomo – spiega Francesco -  “mediante la proclamazione della Parola, la celebrazione dei Sacramenti, la testimonianza della fede che si rende efficace nella carità.” Anche se il mondo tende a chiudersi in se stesso e a chiudere quella porta attraverso la quale Dio entra nel mondo e il mondo in Lui. Il tempo di rinnovamento rappresentato dalla Quaresima diventa quindi un’occasione per intraprendere un percorso che permetta al popolo di Dio di evitare di diventare indifferenti.


“Se un membro soffre, tutte le membra soffrono”
Papa Francesco propone tre passi evangelici da meditare, tre segnavia: Il primo, tratto dalla prima Lettera ai Corinzi-  “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono” - è dedicato alla Chiesa universale, communio sanctorum, comunione di cose sante. “La carità di Dio principale arma contro l’indifferenza ci viene offerta dalla Chiesa con la sua testimonianza. Ma, scrive Francesco, non si può testimoniare ciò che non si sia sperimentato prima. Grazie all’Eucarestia “diventiamo ciò che riceviamo: il Corpo di Cristo”; e in questo corpo l’indifferenza non trova spazio.

Dov’è tuo fratello?
Il secondo passo, citato dal Papa nel Messaggio per la Quaresima è tratto dal Libro della Genesi – Dov’è tuo fratello? – spinge a meditare sul ruolo delle parrocchie e delle comunità. La preghiera, innanzitutto, per unirsi alla Chiesa del cielo, per instaurare “una comunione di reciproco servizio e di bene che giunge fino al cospetto di Dio”. E poi anche la missionarietà: “ogni comunità cristiana – si legge nel Messaggio -  è chiamata a varcare la soglia che la pone in relazione con la società che la circonda, con i poveri ed i lontani”. Francesco auspica che “i luoghi in cui si manifesta la Chiesa, le nostre parrocchie e le nostre comunità in particolare, diventino delle isole di misericordia in mezzo al mare dell’indifferenza!”.

“Rinfrancate i vostri cuori!”
Infine, il Messaggio del Papa si rivolge al singolo fedele, ispirandosi alla Lettera di Giacomo “Rinfrancate i vostri cuori!”. Lo spavento e il senso di impotenza che colgono ciascuno di noi di fronte alle sofferenze umane e alle immagini sconvolgenti che ci raggiungono possono essere sconfitte con la forza della preghiera di tanti. Ed è proprio a questo scopo – spiega il Papa - che è pensata l’iniziativa 24 ore per il Signore che si svolgerà il 13 e il 14 marzo. In secondo luogo, si può aiutare spiega Francesco con  gesti di carità, concreti, anche piccoli. La Quaresima – si legge nel Messaggio - è un tempo propizio per mostrare questo interesse all’altro con un segno della nostra partecipazione alla comunità intera. Non è possibile salvarsi da soli – spiega Francesco – è una tentazione diabolica. Serve, invece, quello che Benedetto XVI ha definito un percorso di formazione del cuore, un cuore che conosca le proprie povertà e che si spenda per l’altro.

“Rendi il nostro cuore simile al Tuo!”
“Rendi il nostro cuore simile al tuo!” E’ la supplica del Papa a conclusione del Messaggio per la Quaresima, così da avere “un cuore forte e misericordioso, vigile e generoso, che non si lascia chiudere in se stesso e non cade nella vertigine della globalizzazione dell’indifferenza".

  Di seguito, il testo integrale del messaggio:

“Cari fratelli e sorelle,
la Quaresima è un tempo di rinnovamento per la Chiesa, le comunità e i singoli fedeli. Soprattutto però è un “tempo di grazia” (2 Cor 6,2). Dio non ci chiede nulla che prima non ci abbia donato: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4,19). Lui non è indifferente a noi. Ognuno di noi gli sta a cuore, ci conosce per nome, ci cura e ci cerca quando lo lasciamo. Ciascuno di noi gli interessa; il suo amore gli impedisce di essere indifferente a quello che ci accade. Però succede che quando noi stiamo bene e ci sentiamo comodi, certamente ci dimentichiamo degli altri (cosa che Dio Padre non fa mai), non ci interessano i loro problemi, le loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono… allora il nostro cuore cade nell’indifferenza: mentre io sto relativamente bene e comodo, mi dimentico di quelli che non stanno bene. Questa attitudine egoistica, di indifferenza, ha preso oggi una dimensione mondiale, a tal punto che possiamo parlare di una globalizzazione dell’indifferenza. Si tratta di un disagio che, come cristiani, dobbiamo affrontare. Quando il popolo di Dio si converte al suo amore, trova le risposte a quelle domande che continuamente la storia gli pone. Una delle sfide più urgenti sulla quale voglio soffermarmi in questo Messaggio è quella della globalizzazione dell’indifferenza.

L’indifferenza verso il prossimo e verso Dio è una reale tentazione anche per noi cristiani. Abbiamo perciò bisogno di sentire in ogni Quaresima il grido dei profeti che alzano la voce e ci svegliano.

Dio non è indifferente al mondo, ma lo ama fino a dare il suo Figlio per la salvezza di ogni uomo. Nell’incarnazione, nella vita terrena, nella morte e risurrezione del Figlio di Dio, si apre definitivamente la porta tra Dio e uomo, tra cielo e terra. E la Chiesa è come la mano che tiene aperta questa porta mediante la proclamazione della Parola, la celebrazione dei Sacramenti, la testimonianza della fede che si rende efficace nella carità (cfr Gal 5,6). Tuttavia, il mondo tende a chiudersi in se stesso e a chiudere quella porta attraverso la quale Dio entra nel mondo e il mondo in Lui. Così la mano, che è la Chiesa, non deve mai sorprendersi se viene respinta, schiacciata e ferita.
Il popolo di Dio ha perciò bisogno di rinnovamento, per non diventare indifferente e per non chiudersi in se stesso. Vorrei proporvi tre passi da meditare per questo rinnovamento.

1. “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono” (1 Cor 12,26) – La Chiesa
La carità di Dio che rompe quella mortale chiusura in se stessi che è l’indifferenza, ci viene offerta dalla Chiesa con il suo insegnamento e, soprattutto, con la sua testimonianza. Si può però testimoniare solo qualcosa che prima abbiamo sperimentato. Il cristiano è colui che permette a Dio di rivestirlo della sua bontà e misericordia, di rivestirlo di Cristo, per diventare come Lui, servo di Dio e degli uomini. Ce lo ricorda bene la liturgia del Giovedì Santo con il rito della lavanda dei piedi. Pietro non voleva che Gesù gli lavasse i piedi, ma poi ha capito che Gesù non vuole essere solo un esempio per come dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri. Questo servizio può farlo solo chi prima si è lasciato lavare i piedi da Cristo. Solo questi ha “parte” con lui (Gv 13,8) e così può servire l’uomo.
La Quaresima è un tempo propizio per lasciarci servire da Cristo e così diventare come Lui. Ciò avviene quando ascoltiamo la Parola di Dio e quando riceviamo i sacramenti, in particolare l’Eucaristia. In essa diventiamo ciò che riceviamo: il corpo di Cristo. In questo corpo quell’indifferenza che sembra prendere così spesso il potere sui nostri cuori, non trova posto. Poiché chi è di Cristo appartiene ad un solo corpo e in Lui non si è indifferenti l’uno all’altro. “Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui” (1 Cor 12,26).
La Chiesa è communio sanctorum perché vi partecipano i santi, ma anche perché è comunione di cose sante: l’amore di Dio rivelatoci in Cristo e tutti i suoi doni. Tra essi c’è anche la risposta di quanti si lasciano raggiungere da tale amore. In questa comunione dei santi e in questa partecipazione alle cose sante nessuno possiede solo per sé, ma quanto ha è per tutti. E poiché siamo legati in Dio, possiamo fare qualcosa anche per i lontani, per coloro che con le nostre sole forze non potremmo mai raggiungere, perché con loro e per loro preghiamo Dio affinché ci apriamo tutti alla sua opera di salvezza.

2. “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9) – Le parrocchie e le comunità
Quanto detto per la Chiesa universale è necessario tradurlo nella vita delle parrocchie e comunità. Si riesce in tali realtà ecclesiali a sperimentare di far parte di un solo corpo? Un corpo che insieme riceve e condivide quanto Dio vuole donare? Un corpo, che conosce e si prende cura dei suoi membri più deboli, poveri e piccoli? O ci rifugiamo in un amore universale che si impegna lontano nel mondo, ma dimentica il Lazzaro seduto davanti alla propria porta chiusa ? (cfr Lc 16,19-31).
Per ricevere e far fruttificare pienamente quanto Dio ci dà vanno superati i confini della Chiesa visibile in due direzioni.
In primo luogo, unendoci alla Chiesa del cielo nella preghiera. Quando la Chiesa terrena prega, si instaura una comunione di reciproco servizio e di bene che giunge fino al cospetto di Dio. Con i santi che hanno trovato la loro pienezza in Dio, formiamo parte di quella comunione nella quale l’indifferenza è vinta dall’amore. La Chiesa del cielo non è trionfante perché ha voltato le spalle alle sofferenze del mondo e gode da sola. Piuttosto, i santi possono già contemplare e gioire del fatto che, con la morte e la resurrezione di Gesù, hanno vinto definitivamente l’indifferenza, la durezza di cuore e l’odio. Finché questa vittoria dell’amore non compenetra tutto il mondo, i santi camminano con noi ancora pellegrini. Santa Teresa di Lisieux, dottore della Chiesa, scriveva convinta che la gioia nel cielo per la vittoria dell’amore crocifisso non è piena finché anche un solo uomo sulla terra soffre e geme: “Conto molto di non restare inattiva in cielo, il mio desiderio è di lavorare ancora per la Chiesa e per le anime” (Lettera 254 del 14 luglio 1897).
 Anche noi partecipiamo dei meriti e della gioia dei santi ed essi partecipano alla nostra lotta e al nostro desiderio di pace e di riconciliazione. La loro gioia per la vittoria di Cristo risorto è per noi motivo di forza per superare tante forme d’indifferenza e di durezza di cuore.
D’altra parte, ogni comunità cristiana è chiamata a varcare la soglia che la pone in relazione con la società che la circonda, con i poveri e i lontani. La Chiesa per sua natura è missionaria, non ripiegata su se stessa, ma mandata a tutti gli uomini.
Questa missione è la paziente testimonianza di Colui che vuole portare al Padre tutta la realtà ed ogni uomo. La missione è ciò che l’amore non può tacere. La Chiesa segue Gesù Cristo sulla strada che la conduce ad ogni uomo, fino ai confini della terra (cfr At 1,8). Così possiamo vedere nel nostro prossimo il fratello e la sorella per i quali Cristo è morto ed è risorto. Quanto abbiamo ricevuto, lo abbiamo ricevuto anche per loro. E parimenti, quanto questi fratelli possiedono è un dono per la Chiesa e per l’umanità intera.
Cari fratelli e sorelle, quanto desidero che i luoghi in cui si manifesta la Chiesa, le nostre parrocchie e le nostre comunità in particolare, diventino delle isole di misericordia in mezzo al mare dell’indifferenza!

3. “Rinfrancate i vostri cuori !” (Gc 5,8) – Il singolo fedele
Anche come singoli abbiamo la tentazione dell’indifferenza. Siamo saturi di notizie e immagini sconvolgenti che ci narrano la sofferenza umana e sentiamo nel medesimo tempo tutta la nostra incapacità ad intervenire. Che cosa fare per non lasciarci assorbire da questa spirale di spavento e di impotenza?
In primo luogo, possiamo pregare nella comunione della Chiesa terrena e celeste. Non trascuriamo la forza della preghiera di tanti! L’iniziativa 24 ore per il Signore, che auspico si celebri in tutta la Chiesa, anche a livello diocesano, nei giorni 13 e 14 marzo, vuole dare espressione a questa necessità della preghiera.
In secondo luogo, possiamo aiutare con gesti di carità, raggiungendo sia i vicini che i lontani, grazie ai tanti organismi di carità della Chiesa. La Quaresima è un tempo propizio per mostrare questo interesse all’altro con un segno, anche piccolo, ma concreto, della nostra partecipazione alla comune umanità.
E in terzo luogo, la sofferenza dell’altro costituisce un richiamo alla conversione, perché il bisogno del fratello mi ricorda la fragilità della mia vita, la mia dipendenza da Dio e dai fratelli. Se umilmente chiediamo la grazia di Dio e accettiamo i limiti delle nostre possibilità, allora confideremo nelle infinite possibilità che ha in serbo l’amore di Dio. E potremo resistere alla tentazione diabolica che ci fa credere di poter salvarci e salvare il mondo da soli.
Per superare l’indifferenza e le nostre pretese di onnipotenza, vorrei chiedere a tutti di vivere questo tempo di Quaresima come un percorso di formazione del cuore, come ebbe a dire Benedetto XVI (Lett. enc. Deus caritas est, 31). Avere un cuore misericordioso non significa avere un cuore debole. Chi vuole essere misericordioso ha bisogno di un cuore forte, saldo, chiuso al tentatore, ma aperto a Dio. Un cuore che si lasci compenetrare dallo Spirito e portare sulle strade dell’amore che conducono ai fratelli e alle sorelle. In fondo, un cuore povero, che conosce cioè le proprie povertà e si spende per l’altro.
Per questo, cari fratelli e sorelle, desidero pregare con voi Cristo in questa Quaresima: “Fac cor nostrum secundum cor tuum”: “Rendi il nostro cuore simile al tuo” (Supplica dalle Litanie al Sacro Cuore di Gesù). Allora avremo un cuore forte e misericordioso, vigile e generoso, che non si lascia chiudere in se stesso e non cade nella vertigine della globalizzazione dell’indifferenza.
Con questo auspicio, assicuro la mia preghiera affinché ogni credente e ogni comunità ecclesiale percorra con frutto l’itinerario quaresimale, e vi chiedo di pregare per me. Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca”.



 


Caterina63
00venerdì 30 gennaio 2015 13:28
[SM=g1740733] Il Santo Padre Francesco propone tre passi evangelici da meditare in questo Tempo di Quaresima:

1. “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono” (1 Cor 12,26) – La Chiesa
La carità di Dio che rompe quella mortale chiusura in se stessi che è l’indifferenza;

2. “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9) – Le parrocchie e le comunità
Quanto detto per la Chiesa universale è necessario tradurlo nella vita delle parrocchie e comunità;

3. “Rinfrancate i vostri cuori !” (Gc 5,8) – Il singolo fedele
Anche come singoli abbiamo la tentazione dell’indifferenza.
Per superare l’indifferenza e le nostre pretese di onnipotenza, vorrei chiedere a tutti di vivere questo tempo di Quaresima come un percorso di formazione del cuore, come ebbe a dire Benedetto XVI (Lett. enc. Deus caritas est, 31).

Avere un cuore misericordioso non significa avere un cuore debole. Chi vuole essere misericordioso ha bisogno di un cuore forte, saldo, chiuso al tentatore, ma aperto a Dio... e potremo così resistere alla tentazione diabolica che ci fa credere di poter salvarci e salvare il mondo da soli.

Santa Quaresima a tutti.
Movimento Domenicano del Rosario
www.sulrosario.org
info@sulrosario.org

www.youtube.com/watch?v=rUw3lxVw2Ug&feature=youtu.be

www.gloria.tv/media/GMBgrrWHzFi





[SM=g1740717]


[SM=g1740771]

Caterina63
00lunedì 9 febbraio 2015 18:01
   Stazioni della Quaresima cosa sono e come farle






BREVI CENNI STORICI SULLE SACRE STAZIONI QUARESIMALI (da un testo del 1903)

La pia pratica di una conveniente preparazione alla grande Solennità di Pasqua è antichissima nella Chiesa Romana.

A tale preparazione erano particolarmente chiamati i catecumeni che si disponevano a ricevere il santo Battesimo nella notte precedente la Pasqua ; ma non vi erano meno interessati tutti i fedeli che alimentavano così lo spirito di fervore per corrispondere degnamente alla sublime vocazione cristiana.

Questa preparazione non consisteva soltanto nel digiuno, la cui origine apostolica è provatissima, specialmente per i due giorni del mercoledì e venerdì che furono subito consacrati a questo esercizio di penitenza, ma non tardò ad esplicarsi con pratiche esteriori di pietà che in sensibilmente vennero a compenetrarsi colla liturgia, facendo anzi nella Quaresima la parte precipua della liturgia stessa.

Così accadde che le stazioni quadragesimali in Roma divennero pratiche ufficiali e solenni alle quali partecipavano clero e popolo, e molto spesso il Pontefice precedeva col suo esempio.

 

Perchè "Stazione"

Stazione è il termine preso dall’uso militare romano ad indicare il luogo assegnato alle guardie, nel senso liturgico fu adoperata a significare l’assistenza dei fedeli alle sacre funzioni in una data chiesa, come una sorta di "guardia" al Santissimo. Lo stesso concetto verrà usato poi per la pia pratica della Via Crucis con le sue "stazioni".

Le Stazioni appartengono senza dubbio alla più remota antichità. Ne fa cenno Tertulliano, scrittore ecclesiastico della prima metà del III secolo, e San Leone Magno (Papa dal 29/09/440 al 10/11/461) nei suoi sermoni allude sovente a questa pratica.

 Tuttavia l’ordinatore più accurato di questo esercizio, che specialmente nella Quaresima aveva preso notevole sviluppo, fu il Santo Pontefice Gregorio Magno.

Per lo spirito di penitenza, da cui era dominato questo pontefice illustre, la pratica delle stazioni romane, mentre rimaneva una devozione rituale per alcuni giorni solenni dell’anno nei quali il Papa si recava col suo clero a celebrare i divini misteri nelle celebri basiliche, per il tempo di quaresima divenne una vera pratica penitenziale che dai papi successivi e specialmente da San Gregorio II, ebbe un ordinamento sempre più perfetto, di guisa che celebrandosi la Santa Messa solenne del giorno nella chiesa della stazione, si ebbe la piena compenetrazione di questa devota pratica colla liturgia la quale, moltissime volte nelle sue parti più importanti specialmente nell'Epistola e nel Vangelo della messa, si riporta al titolo ossia chiesa stazionale.

Il luogo in cui doveva tenersi la prossima stazione veniva anticamente indicato nella precedente funzione stazionale: per il giorno delle Ceneri era risaputo che la stazione doveva essere Santa Sabina.

I fedeli si radunavano in una chiesa speciale, anch’ essa designata antecedentemente, e dalla quale si doveva muovere la processione per la chiesa stazionale. L’ ora non fu sempre la stessa, perchè all'uso antico di celebrare nei giorni di digiuno il divin Sacrificio nel pomeriggio, dopo che i fedeli avevano atteso alle loro occupazioni e prima dell’ unico pasto, sottentrò più tardi la celebrazione mattutina anche nei giorni penitenziali.

In questa chiesa adunque dove si radunavano i fedeli e dove si aspettava il papa coi suoi diaconi veniva recitata una preghiera che si diceva appunto "collecta" o preghiera dell’ adunanza; quindi tutti se ne partivano nel debito ordine per recarsi al canto devoto delle Litanie verso la chiesa stazionale.

Il corteo era preceduto dalla preziosa Croce che si soleva usare in tale circostanza, e che era portata da un suddiacono: quando partecipava il papa, la processione si rendeva più solenne per l’intervento degli alti ufficiali pontificii che recavano i vessilli e le ricchissime suppellettili destinate esclusivamente per il divino Sacrificio.

Giunto il corteo alla Chiesa stazionale veniva cantata la Messa solenne ed aveva luogo l’Omelia.

La Messa non aveva il Kyrie o la litania giacché suppliva quella che era stata recitata per la processione; però si ripeteva l’ introito e si compievano tutte le altre cerimonie consuete della messa papale (pontificale).

Prima della Comunione un suddiacono annunciava al popolo:

"Domani la stazione sarà nella Chiesa di S. Giorgio in Velabro", allora il coro rispondeva: Sieno grazie a Dio.

Quindi dopo la Comunione e la collecta super populum (orazione sopra il popolo) che suppliva allora la benedizione finale, i fedeli venivano licenziati (ite, missa est) ed il clero si ritirava alle proprie case.

Quando il Papa non interveniva alla cerimonia stazionale, si recava da lui un accolito offrendogli per devozione un po’ di bambagia intinta nell’olio delle lampade della chiesa stazionale. Presentandosi al Pontefice domandava innanzi tutto di essere benedetto: "iube, domne, benedicere"; ed impetrata la benedizione, proseguiva: "hodie futi statio ad S. Sabinam, quae salutat te", ossia: oggi la stazione fu a S. Sabina, che ti saluta.

A quel punto il Papa rispondeva: Deo gratias, e baciato riverentemente quel batuffolo di bambagia, lo consegnava al suo chierico di servizio (Cubiculario) perchè lo custodisse diligentemente, onde riempirne poi il suo cuscino funebre.

 

Questa era generalmente e per sommi capi la liturgia delle stazioni. In alcuni giorni però si facevano delle cerimonie particolari e talora lunghissime, perchè, come sopra ho accennato, la quaresima era altresì una lunga e solenne preparazione al Battesimo. In certi giorni quindi i catecumeni erano ammessi ai riti preparatori al sublime mistero della rigenerazione che a loro doveva recare il gaudio pasquale.

Quanto alla scelta delle chiese stazionali per la Quaresima, che poi divenne definitiva e fissata nel messale romano, non è possibile scoprire il criterio con cui venne fatta. Certo due pensieri principalmente vi dominarono; l’uno che le chiese o basiliche scelte per le stazioni influissero grandemente nell’ animo dei catecumeni a prepararsi in modo conveniente al Battesimo; l’altro che i più celebri santuari della città fossero onorati dalla devozione pubblica e solenne del clero con il popolo.

Quale risveglio di fede e di vita cristiana se ne aspettava il grande Pontefice S. Gregorio I detto Magno! Ed invero nulla si può ideare di più soprannaturalmente efficace al rinnovamento sociale che questi riti, queste preghiere presentate a Dio collettivamente da un intero popolo, preceduto dal suo santo pastore che presso le Reliquie gloriose dei martiri pasce coll' esempio, colla parola, coi Sacramenti il gregge di Cristo !

Ma non era soltanto il popolo di Roma che accorreva numeroso alle cerimonie stazionali, ben presto si aggiunsero i pellegrini che venivano apposta nella città per assistere devotamente e compiere assieme ai romani le devozioni annesse a codesto esercizio. Così, per citare un sol fatto, quando Carlo Magno si recò la prima volta a Roma, nell’anno 774, egli si fece un dovere di assistere alla Messa solenne che il Papa stesso dovea celebrare la domenica di Pasqua a Santa Maria Maggiore, il lunedì a S. Pietro, ed il martedì a S. Paolo fuori delle mura, i quali giorni sono anche adesso i giorni assegnati per le stazioni in quelle basiliche.

Le mutate condizioni dei tempi e delle costumanze sociali fecero modificare, non però nella parte sostanziale e più importante, alcuni riti della Quaresima; la disciplina del catecumenato è andata in disuso, ma la splendida liturgia quadragesimale è sempre viva, sempre palpitante di quella rigogliosa attualità che è tutta propria delle opere di Dio; e poiché essa mira principalmente a condurre i cuori ad una sincera contrizione non vi ha per il popolo cristiano un miglior mezzo di formazione e rinnovazione dello spirito.

Per questo i Pontefici appoggiarono sempre colla loro autorità e colla concessione di copiose indulgenze, il devoto esercizio delle stazioni.

Tali concessioni si estesero poi anche ai fedeli che fuori di Roma praticassero qualche devozione consimile visitando o chiese od altari delle proprie città designati a supplire le chiese stazionali di Roma. In questo caso il Vescovo della diocesi decideva quali chiese - nella propria città - dovessero supplire quelle stazionali di Roma e, facendone richiesta a Roma, riceveva solitamente la benedizione papale e quindi il permesso per celebrare in piena comunione con Roma e lucrando le medesime indulgenze.

Così spiegava il Patriarca di Venezia, cardinale Pietro Lafontaine con una Lettera del 1917, dopo aver ottenuto dal Papa il permesso di dare il via alla pia pratica nelle chiese stazionali di Venezia scelte dal suo Patriarca.

"Al Clero e al Popolo di Venezia - il card. Patriarca

Il Pontefice S. Gregorio il Grande addolorato nel vedere i flagelli coi quali ai tempi suoi Dio richiamava il popolo cristiano sulla via della giustizia, esortava ed invitava i fedeli ad impetrare la misericordia divina e il patrocinio dei Santi, e indiceva all’uopo delle processioni di penitenza.

Finché le forze glielo consentirono, egli stesso interveniva anche alle funzioni delle Stazioni di Quaresima e predicava al popolo. La eco delle sacre Stazioni risuona ancora a Roma durante la Quaresima nelle preci stazionali. Mutate le condizioni dei tempi non si può seguire in tutto il rito primitivo: tuttavia ogni giorno i fedeli concorrono ad una Chiesa stazionale secondo l’ordine notato nel Messale Romano. Ivi si espongono con solennità le reliquie dei Santi e ad ora determinata si fanno delle devote processioni al canto di preci stabilite.

Nelle angustie dalle quali oggi più che in altri tempi il mondo è stretto da ogni parte, ho deliberato d’invitare anch’ io il mio popolo ad impetrare la misericordia del Signore mediante le preghiere stazionali, qui a Venezia. Il S. Padre, a cui ho umiliato il mio pensiero, si è degnato d’incoraggiarmi con una amorevolissima lettera..."

 

 

Veniamo ad oggi che, come ben sappiamo, il Papa apre la Quaresima nel giorno delle Ceneri a Santa Sabina.

Un volume dedicato alle chiese stazionali di Roma, la cui visita è tradizione nel tempo di Quaresima, lo propone la Libreria Editrice Vaticana con Le chiese stazionali di Roma. Un itinerario quaresimale, libro a firma dell’ambasciatrice polacca Hanna Suchocka. Le chiese stazionali, spiega l’autrice, sono “delle chiese nelle quali vengono celebrate le ‘stazioni’, cioè un luogo dove si riuniscono i fedeli, per concedersi una ‘sosta’ particolare, lasciando in disparte per un po’ le faccende di ogni giorno. Questa sosta viene accompagnata dalla riflessione e dalla preghiera”.

Luoghi storici e tradizione assai “radicata” a Roma già nel III secolo, e ufficializzata nel messale romano a partire da Papa Gregorio Magno (590-604), che svolse “un ruolo decisivo nell’organizzazione del sistema delle stazioni e nella scelta della liturgia”, cosicché a ogni giorno della Quaresima era assegnata una chiesa diversa, ripercorrendo le orme dei numerosi martiri che avevano sparso il loro sangue sul suolo dell’Urbe.

Questa tradizione cadde in disuso all’inizio del XIV secolo, in seguito al trasferimento della sede papale ad Avignone, ma è rifiorita negli anni ’60 del XX secolo.

L’autrice condivide così con i lettori la propria esperienza spirituale, scandita attraverso la visita alle 44 chiese stazionali (anche se alcune delle basiliche papali si ripetono), dal mercoledì delle Ceneri, con la statio presso la chiesa di Santa Sabina sull’Aventino, fino a Santa Maria Maggiore nel mercoledì della Settimana Santa. L’itinerario si conclude nella chiesa di San Pancrazio la Domenica in Albis, una settimana esatta dopo la Pasqua.

Il volume – corredato da parecchie fotografie delle diverse chiese visitate e delle numerose opere d’arte in esse custodite –, si caratterizza come un itinerario tematico di visita ad alcune delle più belle chiese della Capitale, accompagnato da un racconto personale dell’autrice, e dall’indicazione delle letture bibliche del giorno, così da costituire anche un cammino di fede.

Completano l’opera un elenco dei Papi, una bibliografia scelta e una mappa di Roma ove sono indicate una per una tutte le chiese stazionali, così da agevolare gli itinerari dei lettori.

 

Purtroppo.... "... l'attuale Messale “romano”, sia nella forma typica che nella versione italiana non ha mantenuto l'elenco delle chiese quaresimali che da secoli scandiscono la preparazione alla Pasqua in tutta Roma. La soppressione di tutte le particolarità romane della liturgia e l'assenza di un messale “proprio” per la Diocesi di Roma, che sia realmente “romano” perché in grado di conservare e trasmettere ciò che liturgicamente ha segnato il vissuto di fede della Città Apostolica, ha portato ad una svalutazione stessa della prassi delle liturgie stazionali. Negli ultimi anni esiste un tentativodell'Ufficio liturgico della Diocesi di Roma di sottolineare quanto sia importante il tessuto delle stazioni intese giustamente come un cammino per pellegrini verso la Pasqua.

L'unico retaggio, che gode del favore dei media per la presenza del Romano Pontefice, sopravvive nelle liturgia del mercoledì delle Ceneri in cui il Vescovo di Roma si reca nella chiesa primaziale di Sant'Anselmo all'Aventino in cui si svolge la “colletta”, ovvero il luogo dove si raduna l'assemblea, dalla quale si snoda una breve processione che conduce fino alla prima delle stationes nell'antica basilica di Santa Sabina, e la solenne stazione del Giovedì santo presso la Basilica Lateranense, in cui il Papa celebra la messa in cena Domini..." (di Francesco Bonomo vedi qui)

(purtroppo abbiamo visto come da due anni la suggestiva celebrazione del Giovedì Santo nel Laterano, della Cena Domini, non si svolge più....)

Oggi l'onere della guida alle Stazioni Quaresimali è affidata alla Pontificia Accademia Cultorum Martyrum (vedi qui) entrando nel sito troverete ulteriori approfondimenti, stazione per stazione, anche con l'ausilio di libretti - in latino e in italiano - che si stanno preparando.

Qui a seguire, a fine articolo, vi postiamo in pdf il libretto delle preghiere, quello che abbiamo trovato in originale, del 1903.

Sia lodato Gesù Cristo

sempre sia lodato e santa Quaresima a tutti.

 

 

Litanie per le Stazioni Quaresimali
in originale latino e italiano
_litanie stazioni quaresimali.pdf [3.58 MB]
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Caterina63
00martedì 17 febbraio 2015 18:32

Come martiri


Martedì, 17 febbraio 2015


 

Il Papa ha offerto la messa a Santa Marta per i ventuno copti «sgozzati per il solo motivo di essere cristiani»

(da: L'Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.039, Mer. 18/02/2015)

«Offriamo questa messa per i nostri ventuno fratelli copti, sgozzati per il solo motivo di essere cristiani». Lo ha detto Papa Francesco nella celebrazione presieduta martedì 17 febbraio nella cappella della Casa Santa Marta. «Preghiamo per loro — ha aggiunto — che il Signore come martiri li accolga, per le loro famiglie, per il mio fratello Tawadros che soffre tanto». E proprio con il patriarca della Chiesa ortodossa copta, Tawadros II, il Papa ha parlato personalmente al telefono nel pomeriggio di lunedì manifestandogli la sua profonda partecipazione al dolore per il barbaro assassinio compiuto dai fondamentalisti islamici. E assicurando anche la propria preghiera.

Ripetendo le parole dell’antifona iniziale «Sii per me difesa, o Dio, rocca e fortezza che mi salva, perché tu sei mio baluardo e mio rifugio; guidami per amore del tuo nome» (salmo 31, 3-4), Papa Francesco ha aperto l’omelia. Il brano del Libro della Genesi sul diluvio (6, 5-8; 7, 1-5.10), proposto dalla liturgia del giorno, «ci fa pensare — ha detto il Pontefice — alla capacità di distruzione che ha l’uomo: l’uomo è capace di distruggere tutto quello che Dio ha fatto» quando «gli sembra di essere più potente di Dio». E così «Dio può fare cose buone, ma l’uomo è capace di distruggerle tutte».

Anche «nella Bibbia, nei primi capitoli, troviamo tanti esempi, dall’inizio». Ad esempio, ha spiegato Francesco, «l’uomo chiama il diluvio per la sua malvagità: è lui che lo chiama!». Inoltre «l’uomo chiama il fuoco del cielo, in Sodoma e Gomorra, per la sua malvagità». Poi «l’uomo crea la confusione, la divisione dell’umanità — Babele, la Torre di Babele — per la sua malvagità». Insomma, «l’uomo è capace di distruggere, noi siamo tutti capaci di distruggere». Ce lo conferma, sempre nella Genesi, «una frase molto, molto acuta: “Questa malvagità era grande e ogni intimo intento del loro cuore — del cuore degli uomini — non era altro che male, sempre”».

Non è questione di essere troppo negativi, ha fatto notare il Papa, perché «questa è la verità». A tal punto che «siamo capaci di distruggere anche la fraternità», come dimostra la storia di «Caino e Abele nelle prime pagine della Bibbia». Un episodio che, appunto, «distrugge la fraternità, è l’inizio delle guerre: le gelosie, le invidie, tanta cupidigia di potere, di avere più potere». Sì, ha affermato Francesco, «questo sembra negativo, ma è realista». Del resto, ha aggiunto, basta prendere un «giornale qualsiasi» per vedere «che più del novanta per cento delle notizie sono notizie di distruzione: più del novanta per cento! E questo lo vediamo tutti i giorni!».

Ma allora «cosa succede nel cuore dell’uomo?» è stato l’interrogativo fondamentale proposto dal Papa. «Gesù, una volta, avvertì i suoi discepoli che il male non entra nel cuore dell’uomo perché mangia questa cosa che non è pura, bensì perché esce dal cuore». E «dal cuore dell’uomo escono tutte le malvagità». Infatti «il nostro cuore debole è ferito». C’è «sempre quella voglia di autonomia» che porta a dire: «Io faccio quello che voglio e se io ho voglia di questo, lo faccio! E se per questo voglio fare una guerra, la faccio! E se per questo voglio distruggere la mia famiglia, lo faccio! E se per questo devo ammazzare il vicino, lo faccio!». Ma proprio «queste sono le notizie di ogni giorno» ha rimarcato il Papa, osservando che «i giornali non ci raccontano notizie di vita di santi».

Dunque, ha proseguito rilanciando la questione centrale, «perché siamo così?». La risposta è diretta: «Perché abbiamo questa possibilità di distruzione, questo è il problema!». E così facendo, poi, «nelle guerre, nel traffico delle armi siamo imprenditori di morte!». E «ci sono i Paesi che vendono le armi a questo che è in guerra con questo, e le vendono anche a questo, perché così continui la guerra». Il problema è proprio la «capacità di distruzione e questo non viene dal vicino» ma «da noi!».

«Ogni intimo intento del cuore non era altro che male» ha ripetuto, ancora, Francesco. Ricordando appunto che «noi abbiamo questo seme dentro, questa possibilità». Ma «abbiamo anche lo Spirito Santo che ci salva». Si tratta perciò di scegliere a partire dalle «piccole cose». E così «quando una donna va al mercato e trova un’altra, incomincia a chiacchierare, a sparlare della vicina, dell’altra donna di là: questa donna uccide, questa donna è malvagia». E lo è «nel mercato» ma anche «in parrocchia, nelle associazioni: quando ci sono le gelosie, le invidie vanno dal parroco a dire “ma questa no, questo sì, questo fa”». Anche «questa è la malvagità, la capacità di distruggere che tutti noi abbiamo».

È su questo punto che «oggi la Chiesa, alle porte della Quaresima, ci fa riflettere». L’invito del Papa è a domandarcene la ragione, a partire dal passo evangelico di Marco (8, 14-21). «Nel Vangelo Gesù rimprovera un po’ i discepoli che discutevano: “ma tu dovevi prendere il pane — No, tu!”». Insomma i dodici «discutevano come sempre, litigavano fra loro». Ed ecco che Gesù rivolge loro «una bella parola: “Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode”». Così, «semplicemente fa l’esempio di due persone: Erode è cattivo, assassino, e i farisei ipocriti». Ma il Signore parla anche di «“lievito” e loro non capivano».

Il fatto è che, come racconta Marco, i discepoli «parlavano di pane, di questo pane, e Gesù gli fa: “Ma quel lievito è pericoloso, quello che noi abbiamo dentro e che ci porta a distruggere. Guardatevi, fate attenzione!”». Poi «Gesù fa vedere l’altra porta: “Avete il cuore indurito? Non vi ricordate quando ho spezzato i cinque pani, la porta della salvezza di Dio?». Infatti «per questa strada della discussione — dice — mai, mai si farà qualcosa di buono, sempre ci saranno divisioni, distruzione!». E continua: «Pensate alla salvezza, a quello che anche Dio ha fatto per noi, e scegliete bene!». Ma i discepoli «non capivano perché il cuore era indurito per questa passione, per questa malvagità di discutere fra loro e vedere chi era il colpevole di quella dimenticanza del pane».

Francesco ha quindi esortato a prendere «questo messaggio del Signore sul serio». Con la consapevolezza che «queste non sono cose strane, non è il discorso di un marziano» ma sono invece «le cose che ogni giorno accadono nella vita». E per verificarlo, ha ripetuto, basta soltanto prendere «il giornale, niente di più!».

Però, ha aggiunto, «l’uomo è capace di fare tanto bene: pensiamo a madre Teresa, per esempio, una donna del nostro tempo». Ma se «tutti noi siamo capaci di fare tanto bene» siamo altrettanto «capaci anche di distruggere nel grande e nel piccolo, nella stessa famiglia: distruggere i figli, non lasciando crescere i figli con libertà, non aiutandoli a crescere bene» e così in qualche modo annullando i figli. E considerato che «abbiamo questa capacità», per noi «è necessaria la meditazione continua: la preghiera, il confronto fra noi» proprio «per non cadere in questa malvagità che tutto distrugge».

E «abbiamo la forza» per farlo, come «Gesù ci ricorda». Tanto che «oggi ci dice: “Ricordate. Ricordatevi di me, che ho versato il mio sangue per voi; ricordatevi di me che vi ho salvato, vi ho salvati tutti; ricordatevi di me, che ho la forza di accompagnarvi nel cammino della vita, non per la strada della malvagità, ma per la strada della bontà, del fare il bene agli altri; non per la strada della distruzione, ma per la strada del costruire: costruire una famiglia, costruire una città, costruire una cultura, costruire una patria, sempre di più!».

La riflessione di oggi ha suggerito a Francesco di chiedere al Signore, «prima di incominciare la Quaresima», la grazia di «scegliere sempre bene la strada col suo aiuto e non lasciarci ingannare dalle seduzioni che ci porteranno sulla strada sbagliata».































Caterina63
00giovedì 19 febbraio 2015 00:16
SANTA MESSA, BENEDIZIONE E IMPOSIZIONE DELLE CENERI

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica di Santa Sabina

Mercoledì, 18 febbraio 2015

www.vatican.va/news_services/liturgy/libretti/2015/20150218-libretto-mercoledi-ce...

www.youtube.com/watch?v=bSerupXdktM&feature=youtu.be




Come popolo di Dio incominciamo il cammino della Quaresima, tempo in cui cerchiamo di unirci più strettamente al Signore, per condividere il mistero della sua passione e della sua risurrezione.

La liturgia di oggi ci propone anzitutto il passo del profeta Gioele, inviato da Dio a chiamare il popolo alla penitenza e alla conversione, a causa di una calamità (un’invasione di cavallette) che devasta la Giudea. Solo il Signore può salvare dal flagello e bisogna quindi supplicarlo con preghiere e digiuni, confessando il proprio peccato.

Il profeta insiste sulla conversione interiore: «Ritornate a me con tutto il cuore» (2,12).

Ritornare al Signore “con tutto il cuore” significa intraprendere il cammino di una conversione non superficiale e transitoria, bensì un itinerario spirituale che riguarda il luogo più intimo della nostra persona. Il cuore, infatti, è la sede dei nostri sentimenti, il centro in cui maturano le nostre scelte, i nostri atteggiamenti. Quel “ritornate a me con tutto il cuore” non coinvolge solamente i singoli, ma si estende all’intera comunità, è una convocazione rivolta a tutti: «Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la sposa dal suo talamo» (v. 16).

Il profeta si sofferma in particolare sulla preghiera dei sacerdoti, facendo osservare che va accompagnata dalle lacrime. Ci farà bene, a tutti, ma specialmente a noi sacerdoti, all’inizio di questa Quaresima, chiedere il dono delle lacrime, così da rendere la nostra preghiera e il nostro cammino di conversione sempre più autentici e senza ipocrisia. Ci farà bene farci la domanda: “Io piango? Il Papa piange? I cardinali piangono? I vescovi piangono? I consacrati piangono? I sacerdoti piangono? Il pianto è nelle nostre preghiere?”. E proprio questo è il messaggio del Vangelo odierno. Nel brano di Matteo, Gesù rilegge le tre opere di pietà previste nella legge mosaica: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. E distingue, il fatto esterno dal fatto interno, da quel piangere dal cuore. Nel corso del tempo, queste prescrizioni erano state intaccate dalla ruggine del formalismo esteriore, o addirittura si erano mutate in un segno di superiorità sociale. Gesù mette in evidenza una tentazione comune in queste tre opere, che si può riassumere proprio nell’ipocrisia (la nomina per ben tre volte): «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro…Quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti…Quando pregate, non siate simili agli ipocriti, che…amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. … E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti» (Mt 6,1.2.5.16). Sapete, fratelli, che gli ipocriti non sanno piangere, hanno dimenticato come si piange, non chiedono il dono delle lacrime.

Quando si compie qualcosa di buono, quasi istintivamente nasce in noi il desiderio di essere stimati e ammirati per questa buona azione, per ricavarne una soddisfazione. Gesù ci invita a compiere queste opere senza alcuna ostentazione, e a confidare unicamente nella ricompensa del Padre «che vede nel segreto» (Mt 6,4.6.18).

Cari fratelli e sorelle, il Signore non si stanca mai di avere misericordia di noi, e vuole offrirci ancora una volta il suo perdono - tutti ne abbiamo bisogno - , invitandoci a tornare a Lui con un cuore nuovo, purificato dal male, purificato dalle lacrime, per prendere parte alla sua gioia. Come accogliere questo invito? Ce lo suggerisce san Paolo: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor5,20). Questo sforzo di conversione non è soltanto un’opera umana, è lasciarsi riconciliare. La riconciliazione tra noi e Dio è possibile grazie alla misericordia del Padre che, per amore verso di noi, non ha esitato a sacrificare il suo Figlio unigenito. Infatti il Cristo, che era giusto e senza peccato, per noi fu fatto peccato (v. 21) quando sulla croce fu caricato dei nostri peccati, e così ci ha riscattati e giustificati davanti a Dio. «In Lui» noi possiamo diventare giusti, in Lui possiamo cambiare, se accogliamo la grazia di Dio e non lasciamo passare invano questo «momento favorevole» (6,2). Per favore, fermiamoci, fermiamoci un po’ e lasciamoci riconciliare con Dio.

Con questa consapevolezza, iniziamo fiduciosi e gioiosi l’itinerario quaresimale. Maria Madre Immacolata, senza peccato, sostenga il nostro combattimento spirituale contro il peccato, ci accompagni in questo momento favorevole, perché possiamo giungere a cantare insieme l’esultanza della vittoria nel giorno della Pasqua. E come segno della volontà di lasciarci riconciliare con Dio, oltre alle lacrime che saranno “nel segreto”, in pubblico compiremo il gesto dell’imposizione delle ceneri sul capo. Il celebrante pronuncia queste parole: «Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai» (cfr Gen 3,19), oppure ripete l’esortazione di Gesù: «Convertitevi e credete al Vangelo» (cfr Mc 1,15). Entrambe le formule costituiscono un richiamo alla verità dell’esistenza umana: siamo creature limitate, peccatori sempre bisognosi di penitenza e di conversione. Quanto è importante ascoltare ed accogliere tale richiamo in questo nostro tempo! L’invito alla conversione è allora una spinta a tornare, come fece il figlio della parabola, tra le braccia di Dio, Padre tenero e misericordioso, a piangere in quell’abbraccio, a fidarsi di Lui e ad affidarsi a Lui.







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Caterina63
00venerdì 20 febbraio 2015 15:57


L’anno della mia Cresima, il catechista consigliò a noi cresimandi di digiunare soprattutto da noi stessi. All’epoca però non approfondì la questione, perché ero adolescente e tutto quello che mi interessava era finire col catechismo settimanale e basta… Adesso però che ho deciso di prendere sul serio la Fede, vorrei saperne un po’ di più. Come posso, durante questa Quaresima, digiunare da me stesso?

Piero G.

Carissimo Piero il consiglio del catechista fu saggio perché digiunare da "noi stessi" non è certo cosa facile anzi, direi che per un adolescente (e purtroppo anche per un adulto) è più facile digiunare da un panino con prosciutto anziché stare lì a meditare su questo "noi stessi" e di conseguenza alle parole di Gesù: " Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare.." (Lc.17,10).

Come sarebbe a dire "servi inutili?" Non sembra forse che il Signore ci stia sotto-stimando?

Senza dubbio Gesù si esprime con usi, parole e costumi del suo tempo in cui, la figura del padrone e del servo, occupano molte pagine dei Vangeli. Gesù è l'immagine del Padrone, assume su di sé dei ruoli chiave per attirare le folle che a quei tempi erano abituati a questa condizione di servi. Ma poi Gesù - che non era venuto per abolire la legge ma per portarla a compimento - stravolge questi ruoli che rendevano l'uomo schiavo dell'uomo potente e trasforma questa autorità in servizio (Gv.13,5).

Gesù assume così la relazione tra padrone - servo e la pone come modello di servizio evangelico, di obbedienza verso Dio.

L'autorità non può essere evitata o eliminata ma Dio è il Signore e il padrone che poi, come sappiamo, Gesù ci insegnerà a chiamarlo "Padre". Dunque noi siamo i suoi servi. Lui comanda. Noi obbediamo. Lui vuole. Noi eseguiamo.

Ma in questo rapporto Gesù non ci vuole come dei robot incapaci di capire, sudditi costretti o obbligati. Lui ha detto: "Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi." (Gv.13,15)

L'obbedienza, l'ascolto, l'esecuzione di ogni ordine ricevuto è essenza, sostanza, natura della nostra relazione con Lui. In questo rapporto, nulla viene da noi. Tutto invece deve viversi con grande obbedienza. Non per un giorno o per una sola azione. Bensì per tutta la vita.

Ma l'obbedienza di cui parliamo è dovuta con assoluta gratuità, ossia, questo eccelso Padrone nulla deve - come pretesa di diritto - al servo per la sua obbedienza. Questa è nella natura del rapporto. Il padrone comanda. Il servo obbedisce. Il padrone dice. Il servo fa. Il servo non è un salariato o un bracciante a giornata che alla sera ha diritto alla sua ricompensa. La ricompensa del servo è la sua stessa obbedienza, l'ascolto del suo padrone. Questo ha fatto Gesù in qualità di Figlio del Padre: " umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce". (Filip.2,8) 

Dice San Gregorio Magno nel Commento al Cantico dei Cantici:

" Bisogna notare che nella Scrittura il Signore definisce se stesso talvolta signore, talvolta padre, talvolta ancora sposo. Si fa chiamare signore quando vuole incutere timore, padre quando chiede onore, sposo quando vuol essere amato. Per bocca del profeta dice: Se sono il Signore, dov’è il timore che m'appartiene? E se io sono padre, dov'è l'onore che m'è dovuto? E ancora: Ti ho resa mia sposa nella giustizia e nella fedeltà...."

Quindi, in sostanza quel "digiunare a noi stessi" non significa altro che esercitarci - in questo Tempo di grazia che è la Quaresima - a riconoscere che non siamo abbandonati a noi stessi, che non siamo padroni di nulla e che il Signore si attende da noi il legittimo riconoscimento alla Sua sudditanza ma, attenzione, non come un atto triste e dove il "servo non sa quello che fa il suo padrone" (Gv.15,15) al contrario, al verso 14 ha anche detto: " Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando..."

Il "servo di Dio" allora, è colui che vive la propria vita cercando di soddisfare i desideri del Signore Dio e per arrivare a questa consapevolezza è necessario, come insegnano i santi, morire a se stessi, riconoscersi "servi inutili" poichè tutto ciò che di buono faremo non viene da noi, ma da Dio ed il male che compiamo è frutto del nostro allontanamento da Lui, è la disobbedienza ai suoi comandi che ci sono dati per amore. Per mettere riparo a tutto ciò si parte appunto con un senso profondo: la penitenza. Questa "penitenza" (che è entrata persino nei giochi dei fanciulli quando si perde al gioco) è un punto di partenza fondamentale perchè da origine dentro di noi al senso e al grado di giustizia che riconosciamo quale attributo divino. Uno sguardo sui miracoli compiuti da Gesù descritti nei Vangeli, ritroviamo spesso questa parola. Se facciamo penitenze riconosciamo in noi delle mancanze alle quali dobbiamo in qualche modo provvedere.

La Vergine Maria ci da l'esempio di come avviarci su questa strada.

La sua obbedienza al Progetto di Dio in lei nell'Incarnazione, non avviene in modo automatico. Nel racconto di Luca leggiamo un dialogo bellissimo fra l'Arcangelo Gabriele e la Vergine Maria. Maria pone domande non perchè dubita, ma perchè aveva in mente di fare una sua offerta personale a Dio, aveva una sua idea che farà confluire nella richiesta di Dio, così Dio irrompe nella sua vita e le chiede l'impossibile. L'impossibile perchè Maria si era già offerta, cuore ed anima, al suo Dio e non aveva certo idea di "come avverrà questo?". Dio allora rispetta la vocazione di Maria ed anzi, le da già il centuplo, la rende Madre di Dio rispettando la sua scelta verginale, in un certo senso da vita e senso alla sua vocazione portandola a compimento come Lui voleva.

Ora, se è vero che Maria è il caso unico, è anche vero che il suo "fiat" è stato trasmesso anche a tutti noi. Lei ha ricevuto l'Incarnazione divina, noi possiamo incarnare in noi la Parola con il nostro libero "fiat".

Maria ha messo da parte i suoi progetti per far spazio, totalmente, al Progetto di Dio "meditando nel suo cuore", così dobbiamo fare anche noi: digiunare da noi stessi, dai nostri progetti, dai nostri desideri per far posto a quelli di Dio in noi, meditando nel nostro cuore questo incontro e rapporto con Dio.

Allora non dobbiamo avere desideri, sogni, progetti? Non proprio, Gesù ci promette il centuplo se lo seguiremo, ci da degli "incentivi" e sarebbe da stolti rinunciare... Non si tratta di non avere sogni, progetti o desideri, al contrario, questi li avremo sempre, quello che ci viene chiesto è di mettere al servizio di Dio tutto ciò che noi sogniamo, desideriamo o progettiamo, eccolo il nostro autentico "fiat" e quel fiat che diciamo nel Pater Noster: "sia fatta la tua volontà, come in cielo, così in terra".

Digiunare a noi stessi diventa allora la nostra vera offerta a Dio Padre.

San Francesco d'Assisi attese due lunghi anni, dalla conversione, per capire cosa volesse da lui il Signore. Ogni giorno il Santo sostava in ginocchio e supplicante davanti al Crocefisso chiedendo: "Signore, cosa vuoi da me? Cosa vuoi che io faccia?" Il Signore l'aveva convertito, ma non gli aveva ancora detto cosa voleva da lui, la sua "quaresima" durò molto tempo nel quale egli attese con fiducia come e quando e dove attenersi ai compiti che il Signore gli avrebbe poi dato, nel frattempo si occupava dei poveri, dei lebbrosi, della carità.... e pregava intensamente.

Anche Santa Caterina da Siena (tanto per citare i due Patroni d'Italia) attese per certo tempo cosa dovesse fare, ogni giorno chiedeva al Signore in preghiera quale fosse il progetto di Dio su di Lei. Eppure sappiamo quale inaudito compito fu affidato a colei che si definiva "serva inutile", le fu affidato il compito di riportare a Roma il Papa dopo la cattività avignonese durata settanta anni.

In attesa di questo compito non se ne stette con le mani in mano, al contrario, ella preparava il corpo, l'anima, la mente e il cuore, ad essere esecutrice dei comandi di Dio pregando, digiunando, compiendo grandi opere di carità. Con la peste che mieteva vittime, ella si prodigava nel soccorso ai moribondi senza preoccuparsi di venirne contagiata, si occupava dei poveri che bussavano alla sua casa, li andava cercando lei per dare soccorso, andava nelle carceri per portare sollievo e molti ne convertiva.... Viveva e partecipava alla vita sociale della Città non come politicante o come aggregata ad un partito, il suo "partito" era Dio, la santa Chiesa; la sua bandiera era "il vessillo della Croce", la Costituzione alla quale obbediva era il Vangelo, i Dieci Comandamenti e tutto svolgeva con entusiasmo.

Come possiamo digiunare, allora oggi, a noi stessi?

Non dobbiamo scimmiottare i Santi! Dio ci ha creati quali soggetti unici ed irripetibili. Restando noi stessi possiamo e dobbiamo però fare ciò che loro hanno fatto, ognuno secondo ciò che siamo e possiamo fare. Dio non ci chiede l'impossibile, perché l'impossibile lo compie Lui!

Iniziamo allora a digiunare dalle nostre prerogative, dalle nostre aspettative cercando di incarnare in noi quella Parola che ci rivelerà il Suo progetto su ognuno di noi, le sue aspettative chiedendo a noi, così ben disposti, di esercitare quel mandato che abbiamo ricevuto con il Battesimo e poi con gli altri Sacramenti.

Pensiamo a San Padre Pio da Pietralcina e alla beata Madre Teresa di Calcutta, leggiamo queste storie di Santi in questo Tempo di Quaresima, due ruoli diversi: uno chiuso dentro un convento, l'altra missionaria nel mondo, ma entrambi - digiunando a loro stessi - hanno saputo tradurre in opere i progetti di Dio.

Digiunare a noi stessi così non è pesante, al contrario, veniamo immersi in una gioia incontenibile che si tradurrà in opere che tutti potranno vedere.

Concludo con le parole di Benedetto XVI:

“Prima si pensava e si credeva che, accantonando Dio ed essendo noi autonomi, seguendo solo le nostre idee, la nostra volontà, saremmo divenuti realmente liberi, potendo fare quanto volevamo senza che nessun altro potesse darci alcun ordine. Ma dove scompare Dio, l’uomo non diventa più grande; perde anzi la dignità divina, perde lo splendore di Dio sul suo volto. Alla fine risulta solo il prodotto di un’evoluzione cieca e, come tale, può essere usato e abusato. È proprio quanto l’esperienza di questa nostra epoca ha confermato. Solo se Dio è grande, anche l’uomo è grande” (Omelia per la Messa nella solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, 15 agosto 2005).

Sia lodato Gesù Cristo.


 

La Quaresima è un “tempo forte di conversione e digiuno”, insegna la Chiesa cattolica. Allora perché, negli ultimi anni, nelle parrocchie si insiste solamente con la “carità”, cioè con l’aiutare il povero, però in un modo più filantropico che cristiano. Non voglio fare polemiche, ma chi vuole fare del volontariato sociale si rivolta ad una ONG, durante la Quaresima invece pensi alla propria anima. Grazie.

Adriana R.

 

Carissima Adriana,

basterebbe ascoltare i tanti moniti del santo Padre Francesco, contro una carità filantropica, contro una Chiesa ridotta ad una istituzione umana ONG, per comprendere le deviazioni intraprese dentro la Chiesa. Ma non dobbiamo chiuderci in questi errori i quali erano già pienamente vissuti e condannati nelle prime comunità cristiane, così come leggiamo nelle Lettere apostoliche e di Paolo inserite nel Canone del Nuovo Testamento.

Non si tratta dunque degli "ultimi anni", ahimè questa tentazione ci accompagna da duemila anni, ma sempre i Papi l'hanno condannata. Non dobbiamo poi dimenticare che la Parrocchia nasce (il suo termine è già in uso nel primo secolo) proprio come punto di aggregazione per i fedeli non soltanto per ricevere la catechesi, la dottrina e i Sacramenti, ma anche per ricevere del bene materiale.

Questa caratteristica fu talmente vincente che non pochi scrittori storici hanno saputo descrivere che in tempi di carestie e di crisi economiche, soltanto nella Chiesa non si moriva di fame perchè i poveri, benchè poveri, potevano ricevere quel minimo di fabbisogno quotidiano ritemprando corpi ed anime.

Le stesse "foresterie" in ambienti monacali del primo Millennio, sorsero proprio con questo specifico compito attraverso il quale i due cibi venivano dati insieme: il cibo della Parola e dei Sacramenti (specialmente la Confessione e l'Eucaristia) e il cibo per il corpo, ma spesso venivano soccorsi anche i pagani ai quali non si imponeva loro una immediata conversione per ricevere aiuti materiali.

I famosi "ostelli" oggi tanto di moda, nacquero nel 1300 dopo la prima indizione dell'Anno del Giubileo. In questi ostelli si ricevevano i pellegrini i quali erano più poveri che ricchi a pagamento e che non andavano a Roma a fare turismo, ma per acquistare le indulgenze. In questi ostelli il pellegrino trovava così alimenti per l'anima e per il corpo.

Certo non possiamo fare solo una descrizione idilliaca a tal punto da doverci rammentare i motivi per cui Martin Lutero potè attaccare, indiscutibilmente, la profanazione delle indulgenze a pagamento... questo tanto per rendere l'idea che in ogni tempo c'è chi ha abusato della pazienza di Dio e delle opere sante della Chiesa.

Chiarito questo, dove si annida oggi il problema?

Veramente è il Papa stesso che lo sta descrivendo in molte occasioni....

"La Chiesa non è un’organizzazione burocratica, è una storia di amore. Le letture del giorno raccontano le vicende della prima comunità cristiana che cresce e moltiplica i suoi discepoli. Una cosa buona – osserva il Papa – ma che può spingere a fare “patti” per avere ancora “più soci in questa impresa". Invece, la strada che Gesù ha voluto per la sua Chiesa è un’altra: la strada delle difficoltà, la strada della Croce, la strada delle persecuzioni … E questo ci fa pensare: ma cosa è questa Chiesa? Questa nostra Chiesa, perché sembra che non sia un’impresa umana. La Chiesa – sottolinea – è “un’altra cosa”: non sono i discepoli a fare la Chiesa, loro sono degli inviati, inviati da Gesù. E Cristo è inviato dal Padre.." (Omelia del mattino - 24.3.2013).

Ma cosa c'entra questo con il digiuno?

Una parte della risposta l'ho data al messaggio sopra, rispondendo a Piero, è da quel digiuno che dobbiamo iniziare a pensare in grande!

Oggi come oggi, soffocati quasi da una società edonista che pensa individualmente e pensa solo al proprio orticello, al proprio benessere, è importante ritornare a pensare in grande, a pensare come si pensava e si viveva nelle prime comunità cristiane descritte, per esempio, negli Atti degli Apostoli dove emerge non la disciplina dell'osservanza del digiuno personale, ma lo sviluppo armonico delle prime comunità che digiunavano dei propri averi per mettere il ricavato ai piedi degli Apostoli così che si potesse pensare ai più poveri e bisognosi:

"Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune;  chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore,  lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati" (Atti 2, 42-48).

Il problema è che mentre "ieri" la carità aveva un stretto legame con la conversione e dunque veniva distribuita in conformità a quanti - convertendosi appunto - entravano a far parte della Chiesa, oggi si sta togliendo il riscontro alla conversione trasformando la carità in una esclusiva donazione materiale o materialista, non solo senza parlare più di Cristo quale vero elargitore d'ogni bene, ma lasciando che il povero, perchè povero, resti nella propria condizione di peccatore come se - il povero perchè povero - non avesse bisogno di convertirsi e che la sua situazione di povertà sarebbe quasi una implicita santificazione... o canonizzazione.

Certo, i poveri materiali hanno ed avranno sempre un posto speciale in Cristo, ma la povertà che ci rende santi è ben altra cosa e che la povertà materiale può arricchire, ma da sola non basta se mancasse la povertà del cuore.

Certo, la povertà materiale ci predispone più facilmente alla povertà del cuore, ma il punto è trovare sempre quell'equilibrio che non deve andare a discapito ne della carità materiale, ne della carità dottrinale.

Non dimentichiamo che le opere di misericordia non sono solo sette ma quattordici, divise in due gruppi di sette:

Le sette opere di misericordia corporale

Dar da mangiare agli affamati. Dar da bere agli assetati. Vestire gli ignudi. Alloggiare i pellegrini. Visitare gli infermi. Visitare i carcerati. Seppellire i morti.

Le sette opere di misericordia spirituale

Consigliare i dubbiosi. Insegnare agli ignoranti. Ammonire i peccatori. Consolare gli afflitti. Perdonare le offese. Sopportare pazientemente le persone moleste. Pregare Dio per i vivi e per i morti.

Da questo schema che possiamo approfondire con il Catechismo, riusciamo a giungere al cuore della tua domanda e trovare il giusto intendimento o orientamento.

Il punto è dunque questo:

le quattordici opere di misericordia non vanno disgiunte, non vanno separate e la "conversione e il digiuno" del Tempo quaresimale deve inserirsi all'interno delle quattordici opere di misericordia.

Il digiuno - che nasce come preparazione a disporci alle "cose di Dio" - se è fatto fine a se stesso non produce frutti che sono, appunto, le opere materiali. Così come un digiuno senza la conversione non produce nulla.

I problemi da te descritti nascono laddove il digiuno viene usato solo come atteggiamento personale, come ritualistico, come una tantum che si deve fare per sentirsi in ordine con la coscienza.... tanto per poter dire di aver "rispettato" una dottrina... in questo modo tal digiuno non ci servirà a nulla.

Ma anche un digiuno predicato senza spingere il fedele alla conversione a Cristo diventa inutile.

Dove mancano gli equilibri si arriva ai fanatismi, ai radicalismi, a quel fermarsi sulle parole dottrinali usate più come schemi che non quali atti indispensabili per una pratica equilibrata che porti il digiuno e la conversione a compiere le opere della fede.

Il volontariato, dunque, privato della sua essenza che è convertirsi a Cristo perchè non siamo padroni di nulla e tutto ciò che possiamo dare ci è stato dato perché a nostra volta lo doniamo, diventa speculazione, filantropia, ONG... Il vero cristiano infatti, quando dona o fa volontariato, sa perfettamente che di suo ci mette solo un atto di volontà nel farsi dispensatore della Provvidenza alla quale riconosce la padronanza di ogni bene che possiede.

E' sbagliato parlare di "volontariato sociale", perciò, se con questo ci si dissocia dall'opera "sociale" che è sempre stata della missione della Chiesa - leggasi tutto Matteo cap.25 - e che purtroppo oggi, tale termine, viene usato per indicare l'opera socialista-comunista nella falsa distribuzione dei beni. A tal proposito suggerisco l'approfondimento della Dottrina sociale della Chiesa iniziata magistralmente, come dottrina propria, dal grande Papa Leone XIII - vedi qui -.

Concludo queste riflessioni citando Benedetto XVI:

“All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (Enciclica Deus caritas est, n. 1, 2005), a fronte di ciò ci è più comprensibile cosa significa "digiuno e conversione" in questo Tempo di grazia che è la Quaresima: trovare il tempo per ritirarci con Dio incontrato e trovare il tempo per comunicarlo al prossimo attraverso le opere di carità.

Ricorda Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Quaresima del 2008:

Secondo l’insegnamento evangelico, noi non siamo proprietari bensì amministratori dei beni che possediamo: essi quindi non vanno considerati come esclusiva proprietà, ma come mezzi attraverso i quali il Signore chiama ciascuno di noi a farsi tramite della sua provvidenza verso il prossimo. Come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica, i beni materiali rivestono una valenza sociale, secondo il principio della loro destinazione universale (cfr n. 2404)... La preoccupazione del discepolo è che tutto vada a maggior gloria di Dio. Gesù ammonisce: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,16). Tutto deve essere dunque compiuto a gloria di Dio e non nostra... (..)  Ogni volta che per amore di Dio condividiamo i nostri beni con il prossimo bisognoso, sperimentiamo che la pienezza di vita viene dall’amore e tutto ci ritorna come benedizione in forma di pace, di interiore soddisfazione e di gioia.

Il Padre celeste ricompensa le nostre elemosine con la sua gioia. E c’è di più: san Pietro cita tra i frutti spirituali dell’elemosina il perdono dei peccati. “La carità - egli scrive - copre una moltitudine di peccati” (1 Pt 4,8). Come spesso ripete la liturgia quaresimale, Iddio offre a noi peccatori la possibilità di essere perdonati. Il fatto di condividere con i poveri ciò che possediamo ci dispone a ricevere tale dono. Penso, in questo momento, a quanti avvertono il peso del male compiuto e, proprio per questo, si sentono lontani da Dio, timorosi e quasi incapaci di ricorrere a Lui. L’elemosina, avvicinandoci agli altri, ci avvicina a Dio e può diventare strumento di autentica conversione e riconciliazione con Lui e con i fratelli."

Sia lodato Gesù Cristo




Caterina63
00venerdì 20 febbraio 2015 15:59


Sia lodato Gesù Cristo


 





Ho letto che, durante la Quaresima ma pure durante tutto l’anno, una delle penitenze “preferite” di alcuni santi era la flagellazione. Onestamente, questo mi lascia perplesso. Mi pare più masochismo che penitenza. Sbaglio?


Benedetto, detto Tino, G.


 


Carissimo Benedetto, detto Tino, qui entriamo in un campo che esula un pò dal mio compito, entriamo nella mistica. Tuttavia posso aiutarti a capire che non si tratta di masochismo e spiegarti meglio questo genere di penitenza che non è da tutti e che deve essere lasciata anche nel mistero degli imperscrutabili disegni di Dio.


Non tutto può o deve esserci rivelato, Dio rivela a chi vuole e come vuole, a noi è richiesto l'atteggiamento di Maria Santissima, per esempio, la quale "meditava tutte queste cose nel suo cuore".


Innanzi tutto non è che i santi "preferivano" farsi del male... l'uso del cilicio, o degli oggetti contundenti, o delle flagellazioni seguivano molto più semplicemente un iter di formazione personale che coinvolgeva l'anima prima ancora del corpo, e che sul corpo arrivava come mortificazione e non come un gioiello da esibire, infatti questi atti erano compiuti sotto severissimi consigli dei loro padri Confessori e spirituali i quali a volte li approvavano, altre volte le vietavano, altre volte le distribuivano a piccole dosi. C'era anche molta obbedienza per l'uso di queste pratiche.


Nel processo di beatificazione di san Giovanni Paolo II è emerso che egli stesso faceva uso del cilicio e che spesso veniva trovato a dormire per terra in segno di penitenza.


Il grande san Tommaso d'Aquino, uomo razionale e grande dottore della Chiesa, usava portare una cinta nel basso ventre, per mortificare gli istinti della carne....


Ma come si arriva a questi atti che a noi sembrano cose di un passato da dimenticare?


Il primo a mortificarsi nella carne è stato proprio Dio Incarnato. San Paolo spiega bene che la più grande e prima umiliazione di Dio è in quell'assumere la nostra carne mortale e corrotta, Lui! il Creatore della Madre che si rende bisognoso e Figlio di Colei che ha creato.... un mistero che manda in frantumi ogni cervello!


Una carne da purificare - la nostra e non la sua naturalmente che era incorrotta e senza peccato - nel momento in cui l'ha assunta su di Se, e che una volta venuta al mondo doveva anche sopportare la mortificazione della morte. E non di una morte naturale, ma violenta e ignominiosa quale è stata, appunto, quella del Cristo sulla Croce, l'Agnello puro e immacolato, senza colpa e senza peccato. Gesù va incontro alla Passione con la Sua libera scelta. Si lascia flagellare restando "muto come agnello condotto al macello"; si lascia crocifiggere, schernire, abbandona il corpo nelle mani degli uomini, rimanendo sempre padrone della Sua anima che riconsegnerà al Padre.


Sulla scia di tutto questo emerge nei Santi di Dio il desiderio di seguirlo in una radicalità che senza dubbio - e soprattutto oggi - ci è difficile comprendere. Cresce in loro l'esigenza di offrire a Gesù-Amore almeno un briciolo di ciò che possono sopportare quale mortificazione per Lui, con Lui ed in Lui. Perché essi stessi sanno bene che un atto senza di Lui non solo non gli piacerebbe e non lo accetterebbe, ma diventerebbe superbia, per questo i Santi che hanno fatto uso di questi gesti si attenevano scrupolosamente all'obbedienza dei loro Confessori.


San Domenico di Guzman, per esempio, Fondatore dell'Ordine dei Predicatori, usava il cilicio ma soprattutto offriva intere notti davanti al Santissimo, prostrato per terra, offrendo lacrime per la conversione dei peccatori.


San Giovanni Paolo II lo disse chiaramente in diverse occasioni: "la famiglia è minacciata! la famiglia è aggredita e il Papa deve soffrire.... non ha altre parole", e questo grande Pontefice ha davvero sofferto molto per impetrare da Dio l'aiuto per le Famiglie.


Possiamo citare la Beata Caterina Emmerich che vivendo praticamente inchiodata a letto tutta la sua vita, disse che ciò era conseguenza ad una richiesta del Cielo: "soffrire per la conversione dei peccatori e per la Chiesa afflitta di domani...", lei accettò di buon grado e attraverso questa oblazione diventerà la mistica che oggi conosciamo. E da qui anche l'offerta di coloro che inchiodati nel letto per una malattia, la offrono in oblazione e uniti al Sacrificio di Gesù per noi.


I Santi non usavano questi espedienti per un fine a se stesso, ma sempre in relazione al fatto che chi aveva patito prima di loro e più di loro restava Gesù Cristo al quale desideravano, senza superbia, unirsi con queste mortificazioni perseguendo l'insegnamento di san Paolo: "Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me." (Gal.2,20), e ancora più esplicitamente: "Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa" (Colos.1,24).


Non c'è nulla da comprendere se non la grandezza interiore di queste Anime che nel fare ciò pensavano a noi, pensavano alle nostre anime da salvare.Non ci deve lasciare perplessi l'uso di queste cosiddette "discipline", quanto piuttosto le nostre critiche spesse volte poco caritatevoli nei loro confronti. Pensiamo al digiuno per esempio, non lo facciamo forse perchè spinti dalla testimonianza di Giovanni il Battista o per il fatto che Gesù stesso digiunò quaranta giorni e quaranta notti (da qui si sviluppa il Tempo della Quaresima fatta appunto di quaranta giorni)? "Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi." (Gv.13,15), in queste parole si sviluppa anche una radicale scelta nel fare non solo ciò che Lui ha fatto, ma anche ciò che Lui ha dovuto sopportare per noi! I Santi lo facevano - e lo fanno anche se sempre di meno - a partire senza dubbio per una mortificazione della propria carne, essi si riconoscevano peccatori e molti di loro erano anche afflitti dalle tentazioni quanto maggiormente salivano il grado della perfezione, ma lo facevano anche per impetrare da Dio la salvezza delle nostre anime. Certamente a Dio non interessa questa radicalità esteriore, ma di certo accetta con gratitudine l'offerta di se stessi a Lui mediante anche delle prove fisiche, così come ebbe a cuore l'immensa gratitudine del Figlio che - obbediente fino alla morte - berrà quel calice amaro fino in fondo, umiliandosi fino alla morte di croce.


Tanto per capirci e giungere ad una conclusione.


Pensiamo e rileggiamo alcuni passaggi nelle Apparizioni di Fatima che possiamo definire "magistero" ecclesiale per quanto esso è entrato nelle parole degli ultimi Papi. La Vergine Santissima fa delle richieste - apparentemente inaudite per noi oggi - a tre bambini: chiede loro di sacrificarsi, di compiere ogni sacrificio possibile, in riparazione ai Cuori di Gesù e Maria "tanto offesi". Suor Lucia spiegherà che queste richieste, in un primo momento incomprensibili ai loro cuori innocenti, li trasformerà inondando i loro cuori di gioia immensa. Essa racconta come rimanessero senza acqua anche per due giorni per fare questi sacrifici per la conversione dei peccatori. Quando la Madonna fece vedere loro l'inferno e le anime che vi ci andavano, la loro paura fu tale che a volte si radunavano tutti e tre per escogitare quale sacrificio da compiere per soddisfare le richieste di mortificazione e di privazione. Sì, anche questi tre bambini portarono il cilicio!


La piccola Giacinta e Francesco con Lucia escogitarono delle funi fatte di ortica o di piccoli arbusti di rovi e che si legavano, di nascosto dei genitori, sotto ai vestiti. Nessun sacerdote aveva detto loro di fare questo! L'istinto sano che li muove è l'imitazione di Cristo nella Sua Passione perchè sapevano bene che solo Lui poteva salvare quelle anime. E quando Giacinta e Francesco comprendono che la Vergine Santa aveva loro predetto che sarebbero morti presto, non si rattristano affatto, ma anzi, si prodigano a compiere più sacrifici possibili per giungere al Cielo con un bel carico di opere sante da presentare a Gesù.


Di fronte all'annuncio della loro morte, non si rassegnano ad attenderla con le mani in mano, ma si danno da fare fino all'ultimo respiro.


Quando pensiamo a Fatima, purtroppo, siamo spesso attratti solo dal sensazionalismo delle Apparizioni e del Terzo Segreto, mettendo in ombra la vita di queste tre Anime ordinarie rese eccezionali dall'obbedienza e dalla propria fantasia di piacere a Gesù affidandosi completamente alla Madonna.


Dobbiamo dunque flagellarci per piacere a Gesù?


Certo che no! sarebbe superbia e pure ipocrisia. Questi tre bambini di Fatima non hanno smesso di vivere l'ordinarietà, erano ordinari ma lasciandosi formare dall'evento straordinario che vissero donandosi gratuitamente a Gesù per mezzo di Maria, così come i loro cuori e i loro corpi potevano fare, dimostrando per altro molta creatività nei loro doni, entusiasmo, gioia.


Così di molti Santi, solo dopo la loro morte si è saputo cosa facessero del proprio corpo nel chiuso delle loro celle.


Gesù non ci chiede l'impossibile, non ci chiede una sofferenza masochista, ma gratuità nel seguirlo anche in ciò che Lui ha passato per noi che, naturalmente, potremo risolvere con i digiuni, con frequenti confessioni, con il combattere seriamente i nostri vizi.... frequentando la Messa più spesso rimanendo in adorazione del Santissimo. Imitazione non significa scimmiottare o fare il mimo...


Una cosa è certa: maggiore sarà la nostra mortificazione quale atto gratuito unito alla Passione del Cristo, maggiori saranno le consolazioni e le grazie del Cielo. Nel fare questo è consigliabile avere sempre un sacerdote spirituale, un Confessore, che possa guidarci e aiutarci e a lui obbedire a ciò che ci dirà di fare quale convenienza al nostro stato.


Siamo grati perciò a queste Anime, siamo a loro grati nella meravigliosa Comunione dei Santi che invochiamo - forse in modo distratto - nel Credo!


Sia lodato Gesù Cristo


sempre sia lodato


 


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ANGELUS

Piazza San Pietro
I Domenica di Quaresima, 22 febbraio 2015

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Cari fratelli e sorelle buongiorno!

Mercoledì scorso, con il rito delle Ceneri, è iniziata la Quaresima, e oggi è la prima domenica di questo tempo liturgico che fa riferimento ai quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto, dopo il battesimo nel fiume Giordano. Scrive san Marco nel Vangelo odierno: «Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano» (1,12-13). Con queste scarne parole l’evangelista descrive la prova affrontata volontariamente da Gesù, prima di iniziare la sua missione messianica. È una prova da cui il Signore esce vittorioso e che lo prepara ad annunciare il Vangelo del Regno di Dio. Egli, in quei quaranta giorni di solitudine, affrontò Satana “corpo a corpo”, smascherò le sue tentazioni e lo vinse. E in Lui abbiamo vinto tutti, ma a noi tocca proteggere nel nostro quotidiano questa vittoria.

La Chiesa ci fa ricordare tale mistero all’inizio della Quaresima, perché esso ci dà la prospettiva e il senso di questo tempo, che èun tempo di combattimento - nella Quaresima si deve combattere - un tempo di combattimento spirituale contro lo spirito del male(cfr Orazione colletta del Mercoledì delle Ceneri). E mentre attraversiamo il “deserto” quaresimale, noi teniamo lo sguardo rivolto alla Pasqua, che è la vittoria definitiva di Gesù contro il Maligno, contro il peccato e contro la morte. Ecco allora il significato di questa prima domenica di Quaresima: rimetterci decisamente sulla strada di Gesù, la strada che conduce alla vita. Guardare Gesù, cosa ha fatto Gesù, e andare con Lui.

E questa strada di Gesù passa attraverso il deserto. Il deserto è il luogo dove si può ascoltare la voce di Dio e la voce del tentatore. Nel rumore, nella confusione questo non si può fare; si sentono solo le voci superficiali. Invece nel deserto possiamo scendere in profondità, dove si gioca veramente il nostro destino, la vita o la morte. E come sentiamo la voce di Dio? La sentiamo nella sua Parola. Per questo è importante conoscere le Scritture, perché altrimenti non sappiamo rispondere alle insidie del maligno. E qui vorrei ritornare sul mio consiglio di leggere ogni giorno il Vangelo: ogni giorno leggere il Vangelo, meditarlo, un pochettino, dieci minuti; e portarlo anche sempre con noi: in tasca, nella borsa… Ma tenere il Vangelo a portata di mano. Il deserto quaresimale ci aiuta a dire no alla mondanità, agli “idoli”, ci aiuta a fare scelte coraggiose conformi al Vangelo e a rafforzare la solidarietà con i fratelli.

Allora entriamo nel deserto senza paura, perché non siamo soli: siamo con Gesù, con il Padre e con lo Spirito Santo. Anzi, come fu per Gesù, è proprio lo Spirito Santo che ci guida nel cammino quaresimale, quello stesso Spirito sceso su Gesù e che ci è stato donato nel Battesimo. La Quaresima, perciò, è un tempo propizio che deve condurci a prendere sempre più coscienza di quanto lo Spirito Santo, ricevuto nel Battesimo, ha operato e può operare in noi. E alla fine dell’itinerario quaresimale, nella Veglia Pasquale, potremo rinnovare con maggiore consapevolezza l’alleanza battesimale e gli impegni che da essa derivano.

La Vergine Santa, modello di docilità allo Spirito, ci aiuti a lasciarci condurre da Lui, che vuole fare di ciascuno di noi una “nuova creatura”.

A Lei affido, in particolare, questa settimana di Esercizi Spirituali, che avrà inizio oggi pomeriggio, e alla quale prenderò parte insieme con i miei collaboratori della Curia Romana. Pregate perché in questo “deserto” che sono gli Esercizi possiamo ascoltare la voce di Gesù e anche correggere tanti difetti che tutti noi abbiamo, e fare anche fronte alle tentazioni che ogni giorno ci attaccano. Vi chiedo pertanto di accompagnarci con la vostra preghiera.


Dopo l'Angelus:

Cari fratelli e sorelle,

rivolgo un cordiale saluto alle famiglie, ai gruppi parrocchiali, alle associazioni e a tutti i pellegrini di Roma, dell’Italia e di diversi Paesi.

Saluto i fedeli di Napoli, Cosenza e Verona, e i ragazzi di Seregno venuti per la professione di fede.

La Quaresima è un cammino di conversione che ha come centro il cuore. Il nostro cuore deve convertirsi al Signore. Perciò, in questa prima domenica, ho pensato di regalare a voi che siete qui in piazza un piccolo libretto tascabile dal titolo “Custodisci il cuore”. E’ questo [lo mostra]. Questo libretto raccoglie alcuni insegnamenti di Gesù e i contenuti essenziali della nostra fede, come ad esempio i sette Sacramenti, i doni dello Spirito Santo, i dieci comandamenti, le virtù, le opere di misericordia, eccetera. Ora lo distribuiranno i volontari, tra i quali ci sono numerose persone senzatetto, che sono venute in pellegrinaggio. E come sempre anche oggi qui in piazza coloro che sono nel bisogno sono loro stessi a portarci una grande ricchezza: la ricchezza della nostra dottrina, per custodire il cuore. Prendete un libretto per ciascuno e portatelo con voi, come aiuto per la conversione e la crescita spirituale, che parte sempre dal cuore: lì dove si gioca la partita delle scelte quotidiane tra bene e male, tra mondanità e Vangelo, tra indifferenza e condivisione. L’umanità ha bisogno di giustizia, di pace, di amore e potrà averle solo ritornando con tutto il cuore a Dio, che è la fonte di tutto questo. Prendete il libretto, e leggetelo tutti.

Auguro a tutti una buona domenica. Per favore, specialmente in questa settimana degli Esercizi, non dimenticate di pregare per me.





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Il tascabile donato ai fedeli racconti in piazza san Pietro per l'Angelus- Custodire il cuore

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2015-02-22 L’Osservatore Romano

«Noi dobbiamo diventare cristiani coraggiosi». Ecco il programma tracciato dal Papa Francesco sulla prima pagina del tascabile donato ai fedeli raccolti in piazza san Pietro per l’Angelus Domini nella I domenica di Quaresima,

Sì, ma come si diventa coraggiosi? Partendo dal cuore. Infatti l’etimologia insegna che coraggio viene dal latino cor, il cuore appunto. E’ dunque un’azione del cuore il coraggio. Non a caso le trenta pagine del tascabile hanno per titolo «Custodisci il cuore».

Con questa calda e diretta esortazione, Francesco vuole invitare ciascuno di noi, dandoci del tu, a diventare cristiani coraggiosi nel praticare ciò che crediamo. Il suo consiglio è di dedicarci alla formazione del cuore, per renderlo simile a quello di Gesù, il Buon Pastore, richiamato dall’illustrazione in copertina di un affresco delle Catacombe di San Callisto che lo raffigura con una pecorella in spalla ed altre due che rivolgono il capo verso di lui.

La Quaresima, del resto, fa risuonare ogni anno l’appello a convertire la vita partendo dal cuore, lì dove si gioca la partita delle scelte concrete, quotidiane, tra bene e male, tra mondanità e Vangelo, tra indifferenza e condivisione, tra chiusura egoistica e generosa apertura a Dio e al prossimo. Lo ricordava il Papa nel Messaggio di quest’anno: «desidero pregare con voi Cristo in questa Quaresima: “Fac cor nostrum secundum cor tuum”: “Rendi il nostro cuore simile al tuo” (Supplica dalle Litanie al Sacro Cuore di Gesù). Allora avremo un cuore forte e misericordioso, vigile e generoso, che non si lascia chiudere in se stesso e non cade nella vertigine della globalizzazione dell’indifferenza».

In questa luce, il tascabile presenta anzitutto alcuni accenti dell’insegnamento di Gesù ai discepoli, tratti dai capitoli 5-7 del Vangelo di Matteo (le beatitudini, siate perfetti, perdonate, accumulate tesori in cielo, non giudicate, la regola d’oro, fate la volontà del Padre), riassunto nel comandamento nuovo: «come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli» (Gv 13,34-35).

Vengono quindi riferite le formule essenziali della fede professata, celebrata e praticata: il Credo (Simbolo degli Apostoli) e i misteri principali della fede; le tre virtù teologali (fede, speranza, carità); i sette sacramenti; i sette doni e i dodici frutti dello Spirito Santo; i dieci comandamenti e i cinque precetti; le opere di misericordia corporale e spirituale; le quattro virtù cardinali e i sette vizi capitali.
 La fonte a cui si attinge per brevi spiegazioni è il Catechismo della Chiesa Cattolica. 

Sono poi proposte due pratiche spirituali, ereditate dalla tradizione e di immutata attualità: sono la lectio divina, ossia un modo per ascoltare e assimilare quanto esce dalla bocca di Dio, e l’esame di coscienza serale. Queste due pratiche concrete sono descritte in modo semplice e chiaro dal Papa stesso, la prima con testi tratti dalla Evangelii gaudium (nn. 152-153) e la seconda da una meditazione a Santa Marta dove invita a esercitarsi nel“custodire il cuore”, affinché non diventi una piazza dove tutti vanno e vengono, eccetto il Signore. E’ assai utile risvegliare queste due pratiche spirituali nel tempo della Quaresima, per imparare a coltivarle tutti i giorni dell’anno.

L’ascolto della Parola di Dio come la celebrazione dei sacramenti, specie dell’Eucaristia domenicale, trovano compimento nella nostra esistenza. Ma purtroppo dobbiamo fare i conti con le nostre chiusure, malattie, peccati. Rendersi conto della distanza che corre tra il Vangelo e la mia vita - ciò che penso, dico, faccio - è il primo moto che accende in me il desiderio di un cuore nuovo. Poiché qui trova posto il sacramento della confessione per il perdono dei peccati, le ultime pagine del tascabile sono un aiuto in tal senso. Dopo aver brevemente sostato superché confessarsi, come confessarsi, cosa confessare, attraverso trentaquattro interrogativi sul male commesso e il bene omesso nei confronti di Dio, del prossimo e di se stessi, viene offerto un esame di coscienza, coronato dall’atto di dolore.

Custodisci bene il tuo cuore! «Avere un cuore misericordioso non significa avere un cuore debole. Chi vuole essere misericordioso ha bisogno di un cuore forte, saldo, chiuso al tentatore, ma aperto a Dio. Un cuore che si lasci compenetrare dallo Spirito e portare sulle strade dell’amore che conducono ai fratelli e alle sorelle. In fondo, un cuore povero, che conosce cioè le proprie povertà e si spende per l’altro» (Messaggio del Papa per la Quaresima 2015).

di Corrado Maggioni





Un allenamento del cuore con una finalità precisa che lo stesso Papa Francesco rivela nella prima pagina del sussidio: “Noi dobbiamo diventare cristiani coraggiosi”. Non è un caso che coraggio viene dal latino “cor” che è appunto cuore. Sulla copertina c’è Gesù, il Buon Pastore, la guida per camminare in questa Quaresima, e sono i suoi insegnamenti a fare da luce nel percorso da intraprendere. Si inizia con le Beatitudini evangeliche per giungere al Comandamento nuovo, “che vi amiate gli uni gli altri”, la chiave per capire che siamo i discepoli del Signore.

Le basi della vita di fede
Poi, la fede professata nel Credo e i misteri della fede, le tre virtù teologali, i sette sacramenti, i sette doni e 12 frutti dello Spirito Santo. Si ricordano anche i dieci comandamenti e i cinque precetti della Chiesa; le opere di misericordia corporale e spirituale, le quattro virtù cardinali e i sette vizi capitali. Nel capitoletto dedicato alle pratiche spirituali, è riportato un passo dell’"Evangelii Gaudium" di Papa Francesco sulla "lectio divina", definita “la modalità concreta per ascoltare quello che il Signore vuole dirci nella Parola e per lasciarci trasformare dal suo Spirito”.

Il cuore è di Dio, non una piazza
Un passo che ci porta a Casa Santa Marta con la meditazione del 10 ottobre 2014 incentrata sul “custodire il cuore”, il “tesoro dove abita lo Spirito Santo”, dove non bisogna far entrare altri spiriti che siano cattivi pensieri, gelosie e intenzioni. E’ necessario così allontanare la possibilità che “il cuore diventi una piazza dove tutti vanno e vengono” e pertanto il Papa raccomanda l’esame di coscienza a fine giornata, quello “stare in silenzio davanti a se stessi e davanti a Dio”. Una meditazione che è preludio alla Confessione e al perdono dei peccati. Sono infatti una catena di domande dirette a svelare le nostre bugie – so perdonare? sono invidioso? sono costruttore di pace? – che ci portano all’atto di dolore. E’ la conclusione di un percorso profondo verso la conversione del cuore per accogliere in modo nuovo la gioia della Pasqua.






Caterina63
00venerdì 20 marzo 2015 13:50

  Settimana Santa: calendario celebrazioni presiedute dal Papa




Via Crucis al Colosseo - L'Osservatore Romano





20/03/2015 



E’ stato pubblicato il calendario dei riti presieduti da Papa Francesco nella Settimana Santa. Il 29 marzo, il Papa presiederà in Piazza San Pietro, a partire dalle 9.30, la processione e la Messa in occasione della Domenica delle Palme e della 30.ma Giornata Mondiale della Gioventù sul tema: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5, 8).


Il 2 aprile, Giovedì Santo, il Santo Padre presiederà alle 9.30 nella Basilica Vaticana la Santa Messa Crismale. Nel pomeriggio si recherà nel Carcere di Rebibbia per celebrare la Messa “in Coena Domini”: durante il rito laverà i piedi ad alcuni detenuti e detenute della vicina Casa Circondariale Femminile.


Il 3 aprile, Venerdì Santo, presiederà alle 17.00 nella Basilica Vaticana la Celebrazione della Passione del Signore e alle 21.00 la tradizionale Via Crucis al Colosseo. Il 4 aprile, Papa Francesco presiederà alle 20.30 nella Basilica Vaticana la Veglia Pasquale e domenica 5 aprile celebrerà in Piazza San Pietro alle 10.15 la Santa Messa del giorno di Pasqua. Al termine impartirà dalla loggia centrale della Basilica la Benedizione «Urbi et Orbi».






CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DELLE PALME
E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Piazza San Pietro
XXX Giornata Mondiale della Gioventù
Domenica, 29 marzo 201
5

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Al centro di questa celebrazione, che appare tanto festosa, c’è la parola che abbiamo ascoltato nell’inno della Lettera ai Filippesi: «Umiliò sé stesso» (2,8). L’umiliazione di Gesù.

Questa parola ci svela lo stile di Dio e, di conseguenza, quello che deve essere del cristiano: l’umiltà. Uno stile che non finirà mai di sorprenderci e di metterci in crisi: a un Dio umile non ci si abitua mai!

Umiliarsi è prima di tutto lo stile di Dio: Dio si umilia per camminare con il suo popolo, per sopportare le sue infedeltà. Lo si vede bene leggendo la storia dell’Esodo: che umiliazione per il Signore ascoltare tutte quelle mormorazioni, quelle lamentele! Erano rivolte contro Mosè, ma in fondo andavano contro di Lui, il loro Padre, che li aveva fatti uscire dalla condizione di schiavitù e li guidava nel cammino attraverso il deserto fino alla terra della libertà.

In questa Settimana, la Settimana Santa, che ci conduce alla Pasqua, noi andremo su questa strada dell’umiliazione di Gesù. E solo così sarà “santa” anche per noi!

Sentiremo il disprezzo dei capi del suo popolo e i loro inganni per farlo cadere. Assisteremo al tradimento di Giuda, uno dei Dodici, che lo venderà per trenta denari. Vedremo il Signore arrestato e portato via come un malfattore; abbandonato dai discepoli; trascinato davanti al sinedrio, condannato a morte, percosso e oltraggiato. Sentiremo che Pietro, la “roccia” dei discepoli, lo rinnegherà per tre volte. Sentiremo le urla della folla, sobillata dai capi, che chiede libero Barabba, e Lui crocifisso. Lo vedremo schernito dai soldati, coperto con un mantello di porpora, coronato di spine. E poi, lungo la via dolorosa e sotto la croce, sentiremo gli insulti della gente e dei capi, che deridono il suo essere Re e Figlio di Dio.

Questa è la via di Dio, la via dell’umiltà. E’ la strada di Gesù, non ce n’è un’altra. E non esiste umiltà senza umiliazione.

Percorrendo fino in fondo questa strada, il Figlio di Dio ha assunto la “forma di servo” (cfr Fil 2,7). In effetti, umiltà vuol dire ancheservizio, vuol dire lasciare spazio a Dio spogliandosi di sé stessi, “svuotandosi”, come dice la Scrittura (v. 7). Questa - svuotarsi - è l’umiliazione più grande.

C’è una strada contraria a quella di Cristo: la mondanità. La mondanità ci offre la via della vanità, dell’orgoglio, del successo… E’ l’altra via. Il maligno l’ha proposta anche a Gesù, durante i quaranta giorni nel deserto. Ma Gesù l’ha respinta senza esitazione. E con Lui, con la sua grazia soltanto, col suo aiuto, anche noi possiamo vincere questa tentazione della vanità, della mondanità, non solo nelle grandi occasioni, ma nelle comuni circostanze della vita.

Ci aiuta e ci conforta in questo l’esempio di tanti uomini e donne che, nel silenzio e nel nascondimento, ogni giorno rinunciano a sé stessi per servire gli altri: un parente malato, un anziano solo, una persona disabile, un senzatetto…

Pensiamo anche all’umiliazione di quanti per il loro comportamento fedele al Vangelo sono discriminati e pagano di persona. E pensiamo ai nostri fratelli e sorelle perseguitati perché cristiani, i martiri di oggi – ce ne sono tanti – non rinnegano Gesù e sopportano con dignità insulti e oltraggi. Lo seguono sulla sua via. Possiamo parlare in verità di “un nugolo di testimoni”: i martiri di oggi (cfr Eb 12,1).

Durante questa Settimana, mettiamoci anche noi decisamente su questa strada dell’umiltà, con tanto amore per Lui, il nostro Signore e Salvatore. Sarà l’amore a guidarci e a darci forza. E dove è Lui, saremo anche noi (cfr Gv 12,26).

 


ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica delle Palme, 29 marzo 2015

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Al termine di questa celebrazione, saluto con affetto tutti voi qui presenti, in particolare i giovani. Cari giovani, vi esorto a proseguire il vostro cammino sia nelle diocesi, sia nel pellegrinaggio attraverso i continenti, che vi porterà l’anno prossimo a Cracovia, patria di san Giovanni Paolo II, iniziatore delle Giornate Mondiali della Gioventù. Il tema di quel grande Incontro: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5,7), si intona bene con l’Anno Santo della Misericordia. Lasciatevi riempire dalla tenerezza del Padre, per diffonderla intorno a voi!

E ora ci rivolgiamo in preghiera a Maria la nostra Madre, perché ci aiuti a vivere con fede la Settimana Santa. Anche Lei era presente quando Gesù entrò in Gerusalemme acclamato dalla folla; ma il suo cuore, come quello del Figlio, era pronto al sacrificio. Impariamo da Lei, Vergine fedele, a seguire il Signore anche quando la sua via porta alla croce.

Affido alla sua intercessione le vittime della sciagura aerea di martedì scorso, tra le quali vi era anche un gruppo di studenti tedeschi.

Angelus Domini…


Dopo l'Angelus:

Vi auguro una Santa Settimana in contemplazione del Mistero di Gesù Cristo.





Caterina63
00mercoledì 1 aprile 2015 17:55

UDIENZA GENERALE


Piazza San Pietro
Mercoledì, 1° aprile 2015

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Il Triduo Pasquale

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Domani è il Giovedì Santo. Nel pomeriggio, con la Santa Messa “nella Cena del Signore”, avrà inizio il Triduo Pasquale della passione, morte e risurrezione di Cristo, che è il culmine di tutto l’anno liturgico e anche il culmine della nostra vita cristiana.

Il Triduo si apre con la commemorazione dell’Ultima Cena. Gesù, la vigilia della sua passione, offrì al Padre il suo corpo e il suo sangue sotto le specie del pane e del vino e, donandoli in nutrimento agli Apostoli, comandò loro di perpetuarne l’offerta in sua memoria. Il Vangelo di questa celebrazione, ricordando la lavanda dei piedi, esprime il medesimo significato dell’Eucaristia sotto un’altra prospettiva. Gesù – come un servo – lava i piedi di Simon Pietro e degli altri undici discepoli (cfr Gv 13,4-5). Con questo gesto profetico, Egli esprime il senso della sua vita e della sua passione, quale servizio a Dio e ai fratelli: «Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire» (Mc 10,45).

Questo è avvenuto anche nel nostro Battesimo, quando la grazia di Dio ci ha lavato dal peccato e ci siamo rivestiti di Cristo (cfr Col3,10). Questo avviene ogni volta che facciamo il memoriale del Signore nell’Eucaristia: facciamo comunione con Cristo Servo per obbedire al suo comandamento, quello di amarci come Lui ci ha amato (cfr Gv 13,34; 15,12). Se ci accostiamo alla santa Comunione senza essere sinceramente disposti a lavarci i piedi gli uni agli altri, noi non riconosciamo il Corpo del Signore. E’ il servizio di Gesù che dona sé stesso, totalmente.

Poi, dopodomani, nella liturgia del Venerdì Santo meditiamo il mistero della morte di Cristo e adoriamo la Croce. Negli ultimi istanti di vita, prima di consegnare lo spirito al Padre, Gesù disse: «E’ compiuto!» (Gv 19,30). Che cosa significa questa parola?, che Gesù dica: “E’ compiuto”? Significa che l’opera della salvezza è compiuta, che tutte le Scritture trovano il loro pieno compimento nell’amore del Cristo, Agnello immolato. Gesù, col suo Sacrificio, ha trasformato la più grande iniquità nel più grande amore.

Nel corso dei secoli ci sono uomini e donne che con la testimonianza della loro esistenza riflettono un raggio di questo amore perfetto, pieno, incontaminato. Mi piace ricordare un eroico testimone dei nostri giorni, Don Andrea Santoro, sacerdote della diocesi di Roma e missionario in Turchia. Qualche giorno prima di essere assassinato a Trebisonda, scriveva: «Sono qui per abitare in mezzo a questa gente e permettere a Gesù di farlo prestandogli la mia carne … Si diventa capaci di salvezza solo offrendo la propria carne. Il male del mondo va portato e il dolore va condiviso, assorbendolo nella propria carne fino in fondo, come ha fatto Gesù» (A. Polselli, Don Andrea Santoro, le eredità, Città Nuova, Roma 2008, p. 31). Questo esempio di un uomo dei nostri tempi, e tanti altri, ci sostengano nell’offrire la nostra vita come dono d’amore ai fratelli, ad imitazione di Gesù. E anche oggi ci sono tanti uomini e donne, veri martiri che offrono la loro vita con Gesù per confessare la fede, soltanto per questo motivo.

E’ un servizio, servizio della testimonianza cristiana fino al sangue, servizio che ci ha fatto Cristo: ci ha redento fino alla fine. E questo è il significato di quella parola “E’ compiuto”. Che bello sarà che tutti noi, alla fine della nostra vita, con i nostri sbagli, i nostri peccati, anche con le nostre buone opere, con il nostro amore al prossimo, possiamo dire al Padre come Gesù: “E’ compiuto”; non con la perfezione con cui lo ha detto Lui, ma dire: “Signore, ho fatto tutto quello che ho potuto fare. E’ compiuto”. Adorando la Croce, guardando Gesù, pensiamo all’amore, al servizio, alla nostra vita, ai martiri cristiani, e anche ci farà bene pensare alla fine della nostra vita. Nessuno di noi sa quando avverrà questo, ma possiamo chiedere la grazia di poter dire: “Padre, ho fatto quello che ho potuto. E’ compiuto”.

Il Sabato Santo è il giorno in cui la Chiesa contempla il “riposo” di Cristo nella tomba dopo il vittorioso combattimento della croce. Nel Sabato Santo la Chiesa, ancora una volta, si identifica con Maria: tutta la sua fede è raccolta in Lei, la prima e perfetta discepola, la prima e perfetta credente. Nell’oscurità che avvolge il creato, Ella rimane sola a tenere accesa la fiamma della fede, sperando contro ogni speranza (cfr Rm 4,18) nella Risurrezione di Gesù.

E nella grande Veglia Pasquale, in cui risuona nuovamente l’Alleluia, celebriamo Cristo Risorto centro e fine del cosmo e della storia; vegliamo pieni di speranza in attesa del suo ritorno, quando la Pasqua avrà la sua piena manifestazione.

A volte il buio della notte sembra penetrare nell’anima; a volte pensiamo: “ormai non c’è più nulla da fare”, e il cuore non trova più la forza di amare… Ma proprio in quel buio Cristo accende il fuoco dell’amore di Dio: un bagliore rompe l’oscurità e annuncia un nuovo inizio, qualcosa incomincia nel buio più profondo. Noi sappiamo che la notte è “più notte”, è più buia poco prima che incominci il giorno. Ma proprio in quel buio è Cristo che vince e che accende il fuoco dell’amore. La pietra del dolore è ribaltata lasciando spazio alla speranza. Ecco il grande mistero della Pasqua! In questa santa notte la Chiesa ci consegna la luce del Risorto, perché in noi non ci sia il rimpianto di chi dice “ormai…”, ma la speranza di chi si apre a un presente pieno di futuro: Cristo ha vinto la morte, e noi con Lui. La nostra vita non finisce davanti alla pietra di un sepolcro, la nostra vita va oltre con la speranza in Cristo che è risorto proprio da quel sepolcro. Come cristiani siamo chiamati ad essere sentinelle del mattino, che sanno scorgere i segni del Risorto, come hanno fatto le donne e i discepoli accorsi al sepolcro all’alba del primo giorno della settimana.

Cari fratelli e sorelle, in questi giorni del Triduo Santo non limitiamoci a commemorare la passione del Signore, ma entriamo nel mistero, facciamo nostri i suoi sentimenti, i suoi atteggiamenti, come ci invita a fare l’apostolo Paolo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5). Allora la nostra sarà una “buona Pasqua”.


 

Un pensiero speciale rivolgo ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. Domani ricorre il decimo anniversario della morte di San Giovanni Paolo II: il suo esempio e la sua testimonianza sono sempre vivi tra noi. Cari giovani, imparate ad affrontare la vita con il suo ardore e il suo entusiasmo; cari ammalati, portate con gioia la croce della sofferenza come egli ci ha insegnato; e voi, cari sposi novelli, mettete sempre Dio al centro, perché la vostra storia coniugale abbia più amore e più felicità.

   

 

SANTA MESSA DEL CRISMA

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Basilica Vaticana
Giovedì Santo, 2 aprile 2015

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«La mia mano è il suo sostegno, / il mio braccio è la sua forza» (Sal 88,22). Così pensa il Signore quando dice dentro di sé: «Ho trovato Davide, mio servo, / con il mio santo olio l’ho consacrato» (v. 21). Così pensa il nostro Padre ogni volta che “trova” un sacerdote. E aggiunge ancora: «La mia fedeltà e il mio amore saranno con lui / …  Egli mi invocherà: “Tu sei mio padre, / mio Dio e roccia della mia salvezza”» (vv. 25.27).

E’ molto bello entrare, con il Salmista, in questo soliloquio del nostro Dio. Egli parla di noi, suoi sacerdoti, suoi preti; ma in realtà non è un soliloquio, non parla da solo: è il Padre che dice a Gesù: “I tuoi amici, quelli che ti amano, mi potranno dire in modo speciale: Tu sei mio Padre” (cfr Gv 14,21). E se il Signore pensa e si preoccupa tanto di come potrà aiutarci, è perché sa che il compito di ungere il popolo fedele non è facile, è duro; ci porta alla stanchezza e alla fatica. Lo sperimentiamo in tutte le forme: dalla stanchezza abituale del lavoro apostolico quotidiano fino a quella della malattia e della morte, compreso il consumarsi nel martirio.

La stanchezza dei sacerdoti! Sapete quante volte penso a questo: alla stanchezza di tutti voi? Ci penso molto e prego di frequente, specialmente quando ad essere stanco sono io. Prego per voi che lavorate in mezzo al popolo fedele di Dio che vi è stato affidato, e molti in luoghi assai abbandonati e pericolosi. E la nostra stanchezza, cari sacerdoti, è come l’incenso che sale silenziosamente al Cielo (cfr Sal 140,2; Ap 8,3-4). La nostra stanchezza va dritta al cuore del Padre.

Siate sicuri che la Madonna si accorge di questa stanchezza e la fa notare subito al Signore. Lei, come Madre, sa capire quando i suoi figli sono stanchi e non pensa a nient’altro. “Benvenuto! Riposati, figlio. Dopo parleremo… Non ci sono qui io, che sono tua Madre?” – ci dirà sempre quando ci avviciniamo a Lei (cfr Evangelii gaudium, 286). E a suo Figlio dirà, come a Cana: «Non hanno vino» (Gv 2,3).

Succede anche che, quando sentiamo il peso del lavoro pastorale, ci può venire la tentazione di riposare in un modo qualunque, come se il riposo non fosse una cosa di Dio. Non cadiamo in questa tentazione. La nostra fatica è preziosa agli occhi di Gesù, che ci accoglie e ci fa alzare: “Venite a me quando siete stanchi e oppressi, io vi darò ristoro” (cfr Mt 11,28). Quando uno sa che, morto di stanchezza, può prostrarsi in adorazione, dire: “Basta per oggi, Signore”, e arrendersi davanti al Padre, uno sa anche che non crolla ma si rinnova, perché chi ha unto con olio di letizia il popolo fedele di Dio, il Signore pure lo unge: “cambia la sua cenere in diadema, le sue lacrime in olio profumato di letizia, il suo abbattimento in canti” (cfr Is 61,3).

Teniamo ben presente che una chiave della fecondità sacerdotale sta nel come riposiamo e nel come sentiamo che il Signore tratta la nostra stanchezza. Com’è difficile imparare a riposare! In questo si gioca la nostra fiducia e il nostro ricordare che anche noi siamo pecore e abbiamo bisogno del pastore, che ci aiuti. Possono aiutarci alcune domande a questo proposito.

So riposare ricevendo l’amore, la gratuità e tutto l’affetto che mi dà il popolo fedele di Dio? O dopo il lavoro pastorale cerco riposi più raffinati, non quelli dei poveri ma quelli che offre la società dei consumi? Lo Spirito Santo è veramente per me “riposo nella fatica”, o solo Colui che mi fa lavorare? So chiedere aiuto a qualche sacerdote saggio? So riposare da me stesso, dalla mia auto-esigenza, dal mio auto-compiacimento, dalla mia auto-referenzialità? So conversare con Gesù, con il Padre, con la Vergine e san Giuseppe, con i miei Santi protettori amici per riposarmi nelle loro esigenze – che sono soavi e leggere –, nel loro compiacimento – ad essi piace stare in mia compagnia –, e nei loro interessi e riferimenti – ad essi interessa solo la maggior gloria di Dio – …? So riposare dai miei nemici sotto la protezione del Signore? Vado argomentando e tramando fra me, rimuginando più volte la mia difesa, o mi affido allo Spirito Santo che mi insegna quello che devo dire in ogni occasione? Mi preoccupo e mi affanno eccessivamente o, come Paolo, trovo riposo dicendo: «So in chi ho posto la mia fede» (2 Tm 1,12)?

Ripassiamo un momento, brevemente, gli impegni dei sacerdoti, che oggi la liturgia ci proclama: portare ai poveri la Buona Notizia, annunciare la liberazione ai prigionieri e la guarigione ai ciechi, dare la libertà agli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore. Isaia dice anche curare quelli che hanno il cuore spezzato e consolare gli afflitti.

Non sono compiti facili, non sono compiti esteriori, come ad esempio le attività manuali – costruire un nuovo salone parrocchiale, o tracciare le linee di un campo di calcio per i giovani dell’oratorio…; gli impegni menzionati da Gesù implicano la nostra capacità di compassione, sono impegni in cui il nostro cuore è “mosso” e commosso.
Ci rallegriamo con i fidanzati che si sposano, ridiamo con il bimbo che portano a battezzare; accompagniamo i giovani che si preparano al matrimonio e alla famiglia; ci addoloriamo con chi riceve l’unzione nel letto di ospedale; piangiamo con quelli che seppelliscono una persona cara… Tante emozioni… Se noi abbiamo il cuore aperto, questa emozione e tanto affetto affaticano il cuore del Pastore.

Per noi sacerdoti le storie della nostra gente non sono un notiziario:  noi conosciamo la nostra gente, possiamo indovinare ciò che sta passando nel loro cuore; e il nostro, nel patire con loro, ci si va sfilacciando, ci si divide in mille pezzetti, ed è commosso e sembra perfino mangiato dalla gente: prendete, mangiate. Questa è la parola che sussurra costantemente il sacerdote di Gesù quando si sta prendendo cura del suo popolo fedele: prendete e mangiate, prendete e bevete… E così la nostra vita sacerdotale si va donando nel servizio, nella vicinanza al Popolo fedele di Dio… che sempre, sempre stanca.

Vorrei ora condividere con voi alcune stanchezze sulle quali ho meditato.

C’è quella che possiamo chiamare “la stanchezza della gente, la stanchezza delle folle”: per il Signore, come per noi, era spossante – lo dice il Vangelo –, ma è una stanchezza buona, una stanchezza piena di frutti e di gioia. La gente che lo seguiva, le famiglie che gli portavano i loro bambini perché li benedicesse, quelli che erano stati guariti, che venivano con i loro amici, i giovani che si entusiasmavano del Rabbì…, non gli lasciavano neanche il tempo per mangiare. Ma il Signore non si seccava di stare con la gente. Al contrario: sembrava che si ricaricasse (cfrEvangelii gaudium, 11). Questa stanchezza in mezzo alla nostra attività è solitamente una grazia che è a portata di mano di tutti noi sacerdoti (cfr ibid., 279). Che bella cosa è questa: la gente ama, desidera e ha bisogno dei suoi pastori! Il popolo fedele non ci lascia senza impegno diretto, salvo che uno si nasconda in un ufficio o vada per la città con i vetri oscurati. E questa stanchezza è buona, è una stanchezza sana. E’ la stanchezza del sacerdote con l’odore delle pecore…, ma con il sorriso di papà che contempla i suoi figli o i suoi nipotini. Niente a che vedere con quelli che sanno di profumi cari e ti guardano da lontano e dall’alto (cfr ibid., 97).
Siamo gli amici dello Sposo, questa è la nostra gioia. Se Gesù sta pascendo il gregge in mezzo a noi non possiamo essere pastori con la faccia acida, lamentosi, né, ciò che è peggio, pastori annoiati. Odore di pecore e sorriso di padri… Sì, molto stanchi, ma con la gioia di chi ascolta il suo Signore che dice: «Venite, benedetti del Padre mio» (Mt 25,34).

C’è anche quella che possiamo chiamare “la stanchezza dei nemici”. Il demonio e i suoi seguaci non dormono e, dato che le loro orecchie non sopportano la Parola di Dio, lavorano instancabilmente per zittirla o confonderla. Qui la stanchezza di affrontarli è più ardua. Non solo si tratta di fare il bene, con tutta la fatica che comporta, bensì bisogna difendere il gregge e difendere sé stessi dal male (cfr Evangelii gaudium, 83). Il maligno è più astuto di noi ed è capace di demolire in un momento quello che abbiamo costruito con pazienza durante lungo tempo. Qui occorre chiedere la grazia di imparare a neutralizzare - è un’abitudine importante: imparare a neutralizzare -: neutralizzare il male, non strappare la zizzania, non pretendere di difendere come superuomini ciò che solo il Signore deve difendere. Tutto questo aiuta a non farsi cadere le braccia davanti allo spessore dell’iniquità, davanti allo scherno dei malvagi. La parola del Signore per queste situazioni di stanchezza è: «Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo!» (Gv16,33). E questa parola ci darà forza.

E per ultima – ultima perché questa omelia non vi stanchi troppo – c’è anche “la stanchezza di sé stessi” (cfr Evangelii gaudium, 277). E’ forse la più pericolosa.
Perché le altre due provengono dal fatto di essere esposti, di uscire da noi stessi per ungere e darsi da fare (siamo quelli che si prendono cura). Invece questa stanchezza, è più auto-referenziale: è la delusione di sé stessi ma non guardata in faccia, con la serena letizia di chi si scopre peccatore e bisognoso di perdono, di aiuto: questi chiede aiuto e va avanti. Si tratta della stanchezza che dà il “volere e non volere”, l’essersi giocato tutto e poi rimpiangere l’aglio e le cipolle d’Egitto, il giocare con l’illusione di essere qualcos’altro. Questa stanchezza mi piace chiamarla “civettare con la mondanità spirituale”. E quando uno rimane solo, si accorge di quanti settori della vita sono stati impregnati da questa mondanità, e abbiamo persino l’impressione che nessun bagno la possa pulire. Qui può esserci una stanchezza cattiva. La parola dell’Apocalisse ci indica la causa di questa stanchezza: «Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore» (2,3-4). Solo l’amore dà riposo. Ciò che non si ama, stanca male, e alla lunga stanca peggio.

L’immagine più profonda e misteriosa di come il Signore tratta la nostra stanchezza pastorale è quella che «avendo amato i suoi…, li amò sino alla fine» (Gv 13,1): la scena della lavanda dei piedi. Mi piace contemplarla come la lavanda della sequela. Il Signore purifica la stessa sequela, Egli si «coinvolge» con noi (Evangelii gaudium, 24), si fa carico in prima persona di pulire ogni macchia, quello smog mondano e untuoso che ci si è attaccato nel cammino che abbiamo fatto nel suo Nome.

Sappiamo che nei piedi si può vedere come va tutto il nostro corpo. Nel modo di seguire il Signore si manifesta come va il nostro cuore. Le piaghe dei piedi, le slogature e la stanchezza, sono segno di come lo abbiamo seguito, di quali strade abbiamo fatto per cercare le sue pecore perdute, tentando di condurre il gregge ai verdi pascoli e alle acque tranquille (cfr ibid., 270). Il Signore ci lava e ci purifica da tutto quello che si è accumulato sui nostri piedi per seguirlo. E questo è sacro. Non permette che rimanga macchiato. Come le ferite di guerra Lui le bacia, così la sporcizia del lavoro Lui la lava.

La sequela di Gesù è lavata dallo stesso Signore affinché ci sentiamo in diritto di essere “gioiosi”, “pieni”, “senza paura né colpa” e così abbiamo il coraggio di uscire e andare “sino ai confini del mondo, a tutte le periferie”, a portare questa buona notizia ai più abbandonati, sapendo che “Lui è con noi, tutti i giorni fino alla fine del mondo”. E per favore, chiediamo la grazia di imparare ad essere stanchi, ma ben stanchi!


Caterina63
00venerdì 3 aprile 2015 13:55

  Adoramus te, Christe, et benedicimus tibi, quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum


 




Réspice, quaesumus, Domine, super hanc familiam tuam, pro qua Dominus noster Jesus Christus non dubitavit mànibus tradi nocéntium, et crucis subire tormentum. Qui tecum vivit, et regnat in unitate Spiritus sancti Deus per omnia secula seculorum. Amen. Miserére nostri, Dòmine, miserére nostri.





Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI : «La misericordia di Cristo non è una grazia a buon mercato, non suppone la banalizzazione del male. Cristo porta nel suo corpo e sulla sua anima tutto il peso del male, tutta la sua forza distruttiva.
Egli brucia e trasforma il male nella sofferenza, nel fuoco del suo amore sofferente.
Il giorno della vendetta e l’anno della misericordia coincidono nel mistero pasquale, nel Cristo morto e risorto.
Questa è la vendetta di Dio: egli stesso, nella persona del Figlio, soffre per noi.
Quanto più siamo toccati dalla misericordia del Signore, tanto più entriamo in solidarietà con la sua sofferenza – diveniamo disponibili a completare nella nostra carne “quello che manca ai patimenti di Cristo”
(Col 1, 24).» (Joseph Ratzinger, omelia Missa pro eligendo Romano Pontifice 18 aprile 2005).
Ecclesiae tuae, quaesumus, Domine, preces placatus admitte: ut, destructis adversitatibus et erroribus universis, secura tibi serviat libertate. Per Dominum nostrum Jesum Christum Filium tuum, qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus per omnia saecula saeculorum. Amen. 

Stabat Mater dolorósa
iuxta crucem lacrimósa,
dum pendébat Fílius.

Cuius ánimam geméntem,
contristátam et doléntem
pertransívit gládius.

O quam tristis et afflícta
fuit illa benedícta
Mater Unigéniti!

Quae moerébat et dolébat,
Pia Mater dum videbat
nati poenas ínclyti.

Quis est homo, qui non fleret,
Matrem Christi si vidéret
in tanto supplício?

Quis non posset contristári,
Christi Matrem contemplári
doléntem cum Filio?

Pro peccátis suae gentis
vidit Jesum in torméntis
et flagéllis subditum.

Vidit suum dulcem natum
moriéndum desolátum,
dum emísit spíritum.

Eia, mater, fons amóris,
me sentíre vim dolóris
fac, ut tecum lúgeam.

Fac, ut árdeat cor meum
in amándo Christum Deum,
ut sibi compláceam.

Sancta Mater, istud agas,
crucifíxi fige plagas
cordi meo válide.

Tui Nati vulneráti,
tam dignáti pro me pati,
poenas mecum dívide.

Fac me tecum piae flere,
Crucifíxo condolére
donec ego víxero.

Iuxta crucem tecum stare,
et me tibi sociáre
in planctu desídero.

Virgo vírginum praeclára,
mihi iam non sis amára,
fac me tecum plángere.

Fac, ut portem Christi mortem,
passiónis fac me sortem
et plagas recólere.

Fac me plagis vulnerári,
cruce hac inebriári
et cruóre Fílii.

Flammis urar ne succénsus,
per te, Virgo, sim defénsus
in die iudícii.

Fac me cruce custodíri
morte Christi praemuníri,
confovéri grátia.

Quando corpus moriétur,
fac, ut ánimae donétur
paradísi glória.
Amen.
La Madre addolorata stava
in lacrime presso la Croce
su cui pendeva il Figlio.

Cruda spada alla gemente,
contristata e dolente
trapassava l'anima.

Quanto triste ed affranta
era quella sacrosanta
Madre dell'Unigenito!

Come si rattristava, e gemeva
la Pia Madre che vedeva
del Figlio lo strazio!

Chi non piangerebbe
al vedere la Madre di Cristo
in tanto supplizio?

Chi non si rattristerebbe
al contemplare la pia Madre
dolente accanto al Figlio?

A causa dei peccati del suo popolo
vide Gesù nei tormenti,
sottoposto ai flagelli.

Vide il suo dolce Figlio
che moriva, abbandonato da tutti,
mentre esalava lo spirito.

Oh, Madre, fonte d'amore,
fammi provare la stessa intensità del dolore
perché possa piangere con te.

Fa' che arda il cuore mio
nell'amare Cristo Dio
sì che grato io gli sia.

Santa Madre, fai questo:
che le piaghe del tuo Figlio crocifisso
fortemente stiano nel mio cuore.

Del tuo figlio ferito
che si è degnato di patire per me,
dividi con me le pene.

Fammi piangere intensamente con te,
condividere il dolore del Crocifisso,
finché io vivrò.

Accanto alla Croce con te stare,
con te gemer, lacrimare,
Madre mia desidero.

O Vergine gloriosa fra le vergini
non essere amara con me,
fammi piangere con te.

Fa' che io porti la morte di Cristo,
avere parte alla sua passione
e ricordarmi delle sue piaghe.

Fa' che sia ferito delle sue ferite,
e mi inebri con la Croce
e del sangue del tuo Figlio.

Che io non sia bruciato dalle fiamme,
da te, o Vergine, io sia difeso
nel giorno del giudizio.

Fa' che io sia protetto dalla Croce,
fortificato dalla morte di Cristo,
consolato dalla grazia.

E quando il mio corpo morirà
fa' che all'anima sia data
la gloria del Paradiso.
Amen.



     



Tre meditazioni sul Sabato santo di Joseph Ratzinger

L'angoscia di una assenza. Meditazioni sul Sabato Santo

 

del cardinal Joseph Ratzinger

 
In queste pagine, miniature tratte dall’evangeliario dell’inizio del XIII secolo conservato nell’abbazia benedettina di Groß Sankt Martin a Colonia: la deposizione.

In queste pagine, miniature tratte dall’evangeliario dell’inizio del XIII secolo conservato nell’abbazia benedettina di Groß Sankt Martin a Colonia: la deposizione.

PRIMA MEDITAZIONE 

Con sempre maggior insistenza si sente parlare nel nostro tempo della morte di Dio. Per la prima volta, in Jean Paul, si tratta solo di un sogno da incubo: Gesù morto annuncia ai morti, dal tetto del mondo, che nel suo viaggio nell’aldilà non ha trovato nulla, né cielo, né Dio misericordioso, ma solo il nulla infinito, il silenzio del vuoto spalancato.
Si tratta ancora di un sogno orribile che viene messo da parte, gemendo nel risveglio, come un sogno appunto, anche se non si riuscirà mai a cancellare l’angoscia subita, che stava sempre in agguato, cupa, nel fondo dell’anima. Un secolo dopo, in Nietzsche, è una serietà mortale che si esprime in un grido stridulo di terrore: «Dio è morto! Dio rimane morto! E noi lo abbiamo ucciso!». Cinquant’anni dopo, se ne parla con distacco accademico e ci si prepara a una “teologia dopo la morte di Dio”, ci si guarda intorno per vedere come poter continuare e si incoraggiano gli uomini a prepararsi a prendere il posto di Dio. Il mistero terribile del Sabato santo, il suo abisso di silenzio, ha acquistato quindi nel nostro tempo una realtà schiacciante. Giacché questo è il Sabato santo: giorno del nascondimento di Dio, giorno di quel paradosso inaudito che noi esprimiamo nel Credo con le parole «disceso agli inferi», disceso dentro il mistero della morte. Il Venerdì santo potevamo ancora guardare il trafitto.
Il Sabato santo è vuoto, la pesante pietra del sepolcro nuovo copre il defunto, tutto è passato, la fede sembra essere definitivamente smascherata come fanatismo. Nessun Dio ha salvato questo Gesù che si atteggiava a Figlio suo. Si può essere tranquilli: i prudenti che prima avevano un po’ titubato nel loro intimo se forse potesse essere diverso, hanno avuto invece ragione. 

Sabato santo: giorno della sepoltura di Dio; non è questo in maniera impressionante il nostro giorno? Non comincia il nostro secolo a essere un grande Sabato santo, giorno dell’assenza di Dio, nel quale anche i discepoli hanno un vuoto agghiacciante nel cuore che si allarga sempre di più, e per questo motivo si preparano pieni di vergogna e angoscia al ritorno a casa e si avviano cupi e distrutti nella loro disperazione verso Emmaus, non accorgendosi affatto che colui che era creduto morto è in mezzo a loro? 
Dio è morto e noi lo abbiamo ucciso: ci siamo propriamente accorti che questa frase è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana e che noi spesso nelle nostre viae crucis abbiamo ripetuto qualcosa di simile senza accorgerci della gravità tremenda di quanto dicevamo?
Noi lo abbiamo ucciso, rinchiudendolo nel guscio stantio dei pensieri abitudinari, esiliandolo in una forma di pietà senza contenuto di realtà e perduta nel giro di frasi fatte o di preziosità archeologiche; noi lo abbiamo ucciso attraverso l’ambiguità della nostra vita che ha steso un velo di oscurità anche su di lui: infatti che cosa avrebbe potuto rendere più problematico in questo mondo Dio se non la problematicità della fede e dell’amore dei suoi credenti? 

L’oscurità divina di questo giorno, di questo secolo che diventa in misura sempre maggiore un Sabato santo, parla alla nostra coscienza. Anche noi abbiamo a che fare con essa. Ma nonostante tutto essa ha in sé qualcosa di consolante. La morte di Dio in Gesù Cristo è nello stesso tempo espressione della sua radicale solidarietà con noi.
Il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più chiaro di una speranza che non ha confini. E ancora una cosa: solo attraverso il fallimento del Venerdì santo, solo attraverso il silenzio di morte del Sabato santo, i discepoli poterono essere portati alla comprensione di ciò che era veramente Gesù e di ciò che il suo messaggio stava a significare in realtà. Dio doveva morire per essi perché potesse realmente vivere in essi.
L’immagine che si erano formata di Dio, nella quale avevano tentato di costringerlo, doveva essere distrutta perché essi attraverso le macerie della casa diroccata potessero vedere il cielo, lui stesso, che rimane sempre l’infinitamente più grande. Noi abbiamo bisogno del silenzio di Dio per sperimentare nuovamente l’abisso della sua grandezza e l’abisso del nostro nulla che verrebbe a spalancarsi se non ci fosse lui. 

C’è una scena nel Vangelo che anticipa in maniera straordinaria il silenzio del Sabato santo e appare quindi ancora una volta come il ritratto del nostro momento storico. Cristo dorme in una barca che, sbattuta dalla tempesta, sta per affondare. Il profeta Elia aveva una volta irriso i preti di Baal, che inutilmente invocavano a gran voce il loro dio perché volesse far discendere il fuoco sul sacrificio, esortandoli a gridare più forte, caso mai il loro dio stesse a dormire. Ma Dio non dorme realmente? Lo scherno del profeta non tocca alla fin fine anche i credenti del Dio di Israele che viaggiano con lui in una barca che sta per affondare? Dio sta a dormire mentre le sue cose stanno per affondare, non è questa l’esperienza della nostra vita? La Chiesa, la fe­de, non assomigliano a una piccola barca che sta per affondare, che lotta inutilmente contro le onde e il vento, mentre Dio è assente?
I discepoli gridano nella disperazione estrema e scuotono il Signore per svegliarlo, ma egli si mostra meravigliato e rimprovera la loro poca fede. Ma è diversamente per noi? Quando la tempesta sarà passata, ci accorgeremo di quanto la nostra poca fede fosse carica di stoltezza. E tuttavia, o Signore, non possiamo fare a meno di scuotere te, Dio che stai in silenzio e dormi, e gridarti: svegliati, non vedi che affondiamo? Destati, non lasciar durare in eterno l’oscurità del Sabato santo, lascia cadere un raggio di Pasqua anche sui nostri giorni, accompàgnati a noi quando ci avviamo disperati verso Emmaus perché il nostro cuore possa accendersi alla tua vicinanza. Tu che hai guidato in maniera nascosta le vie di Israele per essere finalmente uomo con gli uomini, non ci lasciare nel buio, non permettere che la tua parola si perda nel gran sciupio di parole di questi tempi. Signore, dacci il tuo aiuto, perché senza di te affonderemo. 

Amen. 



La crocifissione

La crocifissione

SECONDA MEDITAZIONE 

Il nascondimento di Dio in questo mondo costituisce il vero mistero del Sabato santo, mistero accennato già nelle parole enigmatiche secondo cui Gesù è «disceso all’inferno». Nello stesso tempo l’esperienza del nostro tempo ci ha offerto un approccio completamente nuovo al Sabato santo, giacché il nascondimento di Dio nel mondo che gli appartiene e che dovrebbe con mille lingue annunciare il suo nome, l’esperienza dell’impotenza di Dio che è tuttavia l’onnipotente – questa è l’esperienza e la miseria del nostro tempo. 
Ma anche se il Sabato santo in tal modo ci si è avvicinato profondamente, anche se noi comprendiamo il Dio del Sabato santo più della manifestazione potente di Dio in mezzo ai tuoni e ai lampi, di cui parla il Vecchio Testamento, rimane tuttavia insoluta la questione di sapere che cosa si intende veramente quando si dice in maniera misteriosa che Gesù «è disceso all’inferno». Diciamolo con tutta chiarezza: nessuno è in grado di spiegarlo veramente. Né diventa più chiaro dicendo che qui inferno è una cattiva traduzione della parola ebraica shêol, che sta a indicare semplicemente tutto il regno dei morti, e quindi la formula vorrebbe originariamente dire soltanto che Gesù è disceso nella profondità della morte, è realmente morto e ha partecipato all’abisso del nostro destino di morte. Infatti sorge allora la domanda: che cos’è realmente la morte e che cosa accade effettivamente quando si scende nella profondità della morte?
Dobbiamo qui porre attenzione al fatto che la morte non è più la stessa cosa dopo che Cristo l’ha subita, dopo che egli l’ha accettata e penetrata, così come la vita, l’essere umano, non sono più la stessa cosa dopo che in Cristo la natura umana poté ve­nire a contatto, e di fatto venne, con l’essere proprio di Dio. Prima la morte era soltanto morte, separazione dal paese dei viventi e, anche se con diversa profondità, qualcosa come “inferno”, lato notturno dell’esistere, buio impenetrabile. Adesso però la morte è anche vita e quando noi oltrepassiamo la glaciale solitudine della soglia della morte, ci incontriamo sempre nuovamente con colui che è la vita, che è voluto divenire il compagno della nostra solitudine ultima e che, nella solitudine mortale della sua angoscia nell’orto degli ulivi e del suo grido sulla croce «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», è divenuto partecipe delle nostre solitudini. Se un bambino si dovesse avventurare da solo nella notte buia attraverso un bosco, avrebbe paura anche se gli si dimostrasse centinaia di volte che non c’è alcun pericolo. Egli non ha paura di qualcosa di determinato, a cui si può dare un nome, ma nel buio sperimenta l’insicurezza, la condizione di orfano, il carattere sinistro dell’esistenza in sé. Solo una voce umana potrebbe consolarlo; solo la mano di una persona cara potrebbe cacciare via come un brutto sogno l’angoscia.
C’è un’angoscia – quella vera, annidata nella profondità delle nostre solitudini – che non può essere superata mediante la ragione, ma solo con la presenza di una persona che ci ama. Quest’angoscia infatti non ha un oggetto a cui si possa dare un nome, ma è solo l’espressione terribile della nostra solitudine ultima. Chi non ha sentito la sensazione spaventosa di questa condizione di abbandono? Chi non avvertirebbe il miracolo santo e consolatore suscitato in questi frangenti da una parola di affetto? Laddove però si ha una solitudine tale che non può essere più raggiunta dalla parola trasformatrice dell’amore, allora noi parliamo di inferno. E noi sappiamo che non pochi uomini del nostro tempo, apparentemente così ottimistico, sono dell’avviso che ogni incontro rimane in superficie, che nessun uomo ha accesso all’ultima e vera profondità dell’altro e che quindi nel fondo ultimo di ogni esistenza giace la disperazione, anzi l’inferno. Jean-Paul Sartre ha espresso questo poeticamente in un suo dramma e nello stesso tempo ha esposto il nucleo della sua dottrina sull’uomo. Una cosa è certa: c’è una notte nel cui buio abbandono non penetra alcuna parola di conforto, una porta che noi dobbiamo oltrepassare in solitudine assoluta: la porta della morte. Tutta l’angoscia di questo mondo è in ultima analisi l’angoscia provocata da questa solitudine. Per questo motivo nel Vecchio Testamento il termine per indicare il regno dei morti era identico a quello con cui si indicava l’inferno: 
shêol. La morte infatti è solitudine assoluta.
Ma quella solitudine che non può essere più illuminata dall’amore, che è talmente profonda che l’amore non può più accedere a essa, è l’inferno. 

«Disceso all’inferno»: questa confessione del Sabato santo sta a significare che Cristo ha oltrepassato la porta della solitudine, che è disceso nel fondo irraggiungibile e insuperabile della nostra condizione di solitudine. Questo sta a significare però che anche nella notte estrema nella quale non penetra alcuna parola, nella quale noi tutti siamo come bambini cacciati via, piangenti, si dà una voce che ci chiama, una mano che ci prende e ci conduce. La solitudine insuperabile dell’uomo è stata superata dal momento che Egli si è trovato in essa.
L’inferno è stato vinto dal momento in cui l’amore è anche entrato nella regione della morte e la terra di nessuno della solitudine è stata abitata da lui. Nella sua profondità l’uomo non vive di pane, ma nell’autenticità del suo essere egli vive per il fatto che è amato e gli è permesso di amare. A partire dal momento in cui nello spazio della morte si dà la presenza dell’amore, allora nella morte penetra la vita: ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata – prega la Chiesa nella liturgia funebre. 

Nessuno può misurare in ultima analisi la portata di queste parole: «disceso all’inferno». Ma se una volta ci è dato di avvicinarci all’ora della nostra solitudine ultima, ci sarà permesso di comprendere qualcosa della grande chiarezza di questo mistero buio. Nella certa speranza che in quell’ora di estrema solitudine non saremo soli, possiamo già adesso presagire qualcosa di quello che avverrà. E in mezzo alla nostra protesta contro il buio della morte di Dio cominciamo a diventare grati per la luce che viene a noi proprio da questo buio. 



La sepoltura

La sepoltura

TERZA MEDITAZIONE 

Nel breviario romano la liturgia del triduo sacro è strutturata con una cura particolare; la Chiesa nella sua preghiera vuole per così dire trasferirci nella realtà della passione del Signore e, al di là delle parole, nel centro spirituale di ciò che è accaduto. Se si volesse tentare di contrassegnare in poche battute la liturgia orante del Sabato santo, allora bisognerebbe soprattutto parlare dell’effetto di pace profonda che traspira da essa. Cristo è penetrato nel nascondimento (Verborgenheit), ma nello stesso tempo, proprio nel cuore del buio impenetrabile, egli è penetrato nella sicurezza (Geborgenheit), anzi egli è diventato la sicurezza ultima. Ormai è diventata vera la parola ardita del salmista: e anche se mi volessi nascondere nell’inferno, anche là sei tu. E quanto più si percorre questa liturgia, tanto più si scorgono brillare in essa, come un’aurora del mattino, le prime luci della Pasqua. Se il Venerdì santo ci pone davanti agli occhi la figura sfigurata del trafitto, la liturgia del Sabato santo si rifà piuttosto all’immagine della croce cara alla Chiesa antica: alla croce circondata da raggi luminosi, segno, allo stesso modo, della morte e della risurrezione. 
Il Sabato santo ci rimanda così a un aspetto della pietà cristiana che forse è stato smarrito nel corso dei tempi. Quando noi nella preghiera guardiamo alla croce, vediamo spesso in essa soltanto un segno della passione storica del Signore sul Golgota. L’origine della devozione alla croce è però diversa: i cristiani pregavano rivolti a Oriente per esprimere la loro speranza che Cristo, il sole vero, sarebbe sorto sulla storia, per esprimere quindi la loro fede nel ritorno del Signore. La croce è in un primo tempo legata strettamente con questo orientamento della preghiera, essa viene rappresentata per così dire come un’insegna che il re inalbererà nella sua venuta; nell’immagine della croce la punta avanzata del corteo è già arrivata in mezzo a coloro che pregano. Per il cristianesimo antico la croce è quindi soprattutto segno della speranza. Essa non implica tanto un riferimento al Signore passato, quanto al Signore che sta per venire. Certo era impossibile sottrarsi alla necessità intrinseca che, con il passare del tempo, lo sguardo si rivolgesse anche all’evento accaduto: contro ogni fuga nello spirituale, contro ogni misconoscimento dell’incarnazione di Dio, occorreva che fosse difesa la prodigalità inimmaginabile dell’amore di Dio che, per amore della misera creatura umana, è diventato egli stesso un uomo, e quale uomo! Occorreva difendere la santa stoltezza dell’amore di Dio che non ha scelto di pronunciare una parola di potenza, ma di percorrere la via dell’impotenza per mettere alla gogna il nostro sogno di potenza e vincerlo dall’interno. 
Ma così non abbiamo dimenticato un po’ troppo la connessione tra croce e speranza, l’unità tra l’Oriente e la direzione della croce, tra passato e futuro esistente nel cristianesimo? Lo spirito della speranza che alita sulle preghiere del Sabato santo dovrebbe nuovamente penetrare tutto il nostro essere cristiani. Il cristianesimo non è soltanto una religione del passato, ma, in misura non minore, del futuro; la sua fede è nello stesso tempo speranza, giacché Cristo non è soltanto il morto e il risorto ma anche colui che sta per venire. 
O Signore, illumina le nostre anime con questo mistero della speranza perché riconosciamo la luce che è irraggiata dalla tua croce, concedici che come cristiani procediamo protesi al futuro, incontro al giorno della tua venuta. 
Amen. 
La resurrezione

La resurrezione


PREGHIERA 

Signore Gesù Cristo, nell’oscurità della morte Tu hai fatto luce; nell’abisso della solitudine più profonda abita ormai per sempre la protezione potente del Tuo amore; in mezzo al Tuo nascondimento possiamo ormai cantare l’alleluia dei salvati. Concedici l’umile semplicità della fede, che non si lascia fuorviare quando Tu ci chiami nelle ore del buio, dell’abbandono, quando tutto sembra apparire problematico; concedici, in questo tempo nel quale attorno a Te si combatte una lotta mortale, luce sufficiente per non perderti; luce sufficiente perché noi possiamo darne a quanti ne hanno ancora più bisogno. Fai brillare il mistero della Tua gioia pasquale, come aurora del mattino, nei nostri giorni; concedici di poter essere veramente uomini pasquali in mezzo al Sabato santo della storia. Concedici che attraverso i giorni luminosi e oscuri di questo tempo possiamo sempre con animo lieto trovarci in cammino verso la Tua gloria futura. 
Amen. 




PAROLE DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Palatino
Venerdì Santo, 3 aprile 201
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O Cristo crocifisso e vittorioso, la tua Via Crucis è la sintesi della tua vita; è l'icona della tua obbedienza alla volontà del Padre; è la realizzazione del tuo infinito amore per noi peccatori; è la prova della tua missione; è il compimento definitivo della rivelazione e della storia della salvezza. Il peso della tua croce ci libera da tutti i nostri fardelli.

Nella tua obbedienza alla volontà del Padre, noi ci accorgiamo della nostra ribellione e disobbedienza. In te venduto, tradito e crocifisso dalla tua gente e dai tuoi cari, noi vediamo i nostri quotidiani tradimenti e le nostre consuete infedeltà. Nella tua innocenza, Agnello immacolato, noi vediamo la nostra colpevolezza. Nel tuo viso schiaffeggiato, sputato e sfigurato, noi vediamo tutta la brutalità dei nostri peccati. Nella crudeltà della tua Passione, noi vediamo la crudeltà del nostro cuore e delle nostre azioni. Nel tuo sentirti “abbandonato”, noi vediamo tutti gli abbandonati dai familiari, dalla società, dall'attenzione e dalla solidarietà. Nel tuo corpo scarnificato, squarciato e dilaniato, noi vediamo i corpi dei nostri fratelli abbandonati lungo le strade, sfigurati dalla nostra negligenza e dalla nostra indifferenza. Nella tua sete, Signore, noi vediamo la sete del Tuo Padre misericordioso che in Te ha voluto abbracciare, perdonare e salvare tutta l'umanità. In Te, divino amore, vediamo ancora oggi i nostri fratelli perseguitati, decapitati e crocifissi per la loro fede in Te, sotto i nostri occhi o spesso con il nostro silenzio complice.

Imprimi, Signore, nei nostri cuori sentimenti di fede, speranza, di carità, di dolore dei nostri peccati e portaci a pentirci per i nostri peccati che ti hanno crocifisso. Portaci a trasformare la nostra conversione fatta di parole, in conversione di vita e di opere. Portaci a custodire in noi un ricordo vivo del tuo Volto sfigurato, per non dimenticare mai l'immane prezzo che hai pagato per liberarci. Gesù crocifisso, rafforza in noi la fede che, non crolli di fronte alla tentazioni; ravviva in noi la speranza, che non si smarrisca seguendo le seduzioni del mondo; custodisci in noi la carità che non si lasci ingannare dalla corruzione e dalla mondanità. Insegnaci che la Croce è via alla Risurrezione. Insegnaci che il venerdì santo è strada verso la Pasqua della luce; insegnaci che Dio non dimentica mai nessuno dei suoi figli e non si stanca mai di perdonarci e di abbracciarci con la sua infinita misericordia. Ma insegnaci anche a non stancarci mai di chiedere perdono e di credere nella misericordia senza limiti del Padre.

Anima di Cristo, santificaci.
Corpo di Cristo, salvaci.
Sangue di Cristo, inebriaci.
Acqua del costato di Cristo, lavaci.
Passione di Cristo, confortaci.
O buon Gesù, esaudiscici.
Dentro le tue piaghe nascondici.
Non permettere che ci separiamo da te.
Dal nemico maligno difendici.
Nell’ora della nostra morte chiamaci: 
e comanda che noi veniamo a te,
affinché ti lodiamo con i tuoi santi,
nei secoli dei secoli. Amen.




Caterina63
00domenica 5 aprile 2015 17:25

MESSAGGIO URBI ET ORBI
DEL SANTO PADRE FRANCESCO

PASQUA 2015

Loggia centrale della Basilica Vaticana 
Domenica, 5 aprile 201
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Cari fratelli e sorelle, buona Pasqua.

Gesù Cristo è risorto!

L’amore ha sconfitto l’odio, la vita ha vinto la morte, la luce ha scacciato le tenebre!

Gesù Cristo, per amore nostro, si è spogliato della sua gloria divina; ha svuotato sé stesso, ha assunto la forma di servo e si è umiliato fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e lo ha fatto Signore dell’universo. Gesù è Signore!

Con la sua morte e risurrezione Gesù indica a tutti la via della vita e della felicità: questa via è l’umiltà, che comporta l’umiliazione. Questa è la strada che conduce alla gloria. Solo chi si umilia può andare verso le “cose di lassù”, verso Dio (cfr Col 3,1-4). L’orgoglioso guarda “dall’alto in basso”, l’umile guarda “dal basso in alto”.

Al mattino di Pasqua, avvertiti dalle donne, Pietro e Giovanni corsero al sepolcro e lo trovarono aperto e vuoto. Allora si avvicinarono e si “chinarono” per entrare nel sepolcro. Per entrare nel mistero bisogna “chinarsi”, abbassarsi. Solo chi si abbassa comprende la glorificazione di Gesù e può seguirlo sulla sua strada.

Il mondo propone di imporsi a tutti costi, di competere, di farsi valere… Ma i cristiani, per la grazia di Cristo morto e risorto, sono i germogli di un’altra umanità, nella quale cerchiamo di vivere al servizio gli uni degli altri, di non essere arroganti ma disponibili e rispettosi.

Questa non è debolezza, ma vera forza! Chi porta dentro di sé la forza di Dio, il suo amore e la sua giustizia, non ha bisogno di usare violenza, ma parla e agisce con la forza della verità, della bellezza e dell’amore.

Dal Signore risorto oggi imploriamo la grazia di non cedere all’orgoglio che alimenta la violenza e le guerre, ma di avere il coraggio umile del perdono e della pace. A Gesù vittorioso domandiamo di alleviare le sofferenze dei tanti nostri fratelli perseguitati a causa del Suo nome, come pure di tutti coloro che patiscono ingiustamente le conseguenze dei conflitti e delle violenze in corso. Ce ne sono tante!

Pace chiediamo anzitutto per l’amata Siria e per l’Iraq, perché cessi il fragore delle armi e si ristabilisca la buona convivenza tra i diversi gruppi che compongono questi amati Paesi. La comunità internazionale non rimanga inerte di fronte alla immensa tragedia umanitaria all’interno di questi Paesi e al dramma dei numerosi rifugiati.

Pace imploriamo per tutti gli abitanti della Terra Santa. Possa crescere tra Israeliani e Palestinesi la cultura dell’incontro e riprendere il processo di pace così da porre fine ad anni di sofferenze e divisioni.

Pace domandiamo per la Libia, affinché si fermi l’assurdo spargimento di sangue in corso e ogni barbara violenza, e quanti hanno a cuore la sorte del Paese si adoperino per favorire la riconciliazione e per edificare una società fraterna che rispetti la dignità della persona. Anche in Yemen auspichiamo che prevalga una comune volontà di pacificazione per il bene di tutta la popolazione.

Nello stesso tempo con speranza affidiamo al Signore che è tanto misericordioso l’intesa raggiunta in questi giorni a Losanna, affinché sia un passo definitivo verso un mondo più sicuro e fraterno.

Dal Signore Risorto imploriamo il dono della pace per la Nigeria, per il Sud-Sudan e per varie regioni del Sudan e della Repubblica Democratica del Congo. Una preghiera incessante salga da tutti gli uomini di buona volontà per coloro che hanno perso la vita – uccisi giovedì scorso nell’Università di Garissa, in Kenia –, per quanti sono stati rapiti, per chi ha dovuto abbandonare la propria casa ed i propri affetti.

La Risurrezione del Signore porti luce all’amata Ucraina, soprattutto a quanti hanno subito le violenze del conflitto degli ultimi mesi. Possa il Paese ritrovare pace e speranza grazie all’impegno di tutte le parti interessate.

Pace e libertà chiediamo per tanti uomini e donne soggetti a nuove e vecchie forme di schiavitù da parte di persone e organizzazioni criminali. Pace e libertà per le vittime dei trafficanti di droga, tante volte alleati con i poteri che dovrebbero difendere la pace e l’armonia nella famiglia umana. E pace chiediamo per questo mondo sottomesso ai trafficanti di armi, che guadagnano con il sangue degli uomini e delle donne.

Agli emarginati, ai carcerati, ai poveri e ai migranti che tanto spesso sono rifiutati, maltrattati e scartati; ai malati e ai sofferenti; ai bambini, specialmente a quelli che subiscono violenza; a quanti oggi sono nel lutto; a tutti gli uomini e le donne di buona volontà giunga la consolante e sanante voce del Signore Gesù: «Pace a voi!» (Lc 24,36) «Non temete, sono risorto e sarò sempre con voi!» (cfr Messale Romano, Antifona d’ingresso del giorno di Pasqua).







Qui si conclude il Tempo della Quaresima e comincia, in altre sezioni, il Tempo Pasquale ed Ordinario.
Buona Pasqua a tutti


Regina cæli, lætare, alleluia:
R. Quia quem meruisti portare, alleluia,
Resurrexit, sicut dixit, alleluia,
R. Ora pro nobis Deum, alleluia.
Gaude et lætare, Virgo Maria, alleluia.
R. Quia surrexit Dominus vere, alleluia.

Oremus.
Deus, qui per resurrectionem Filii tui, Domini nostri Iesu Christi,

mundum lætificare dignatus es:
præsta, quæsumus, ut per eius Genitricem Virginem Mariam,
perpetuæ capiamus gaudia vitæ.
Per eundem Christum Dominum nostrum. R. Amen.



 





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